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Esclusiva

Gennaio 2 2020.
 
Ultimo aggiornamento: Aprile 28 2021
Roma 2030, ultima frontiera

Intervista al sociologo Domenico De Masi, professore emerito alla Sapienza di Roma, sui temi trattati nel suo ultimo libro “Roma 2030, Il destino della Capitale nel prossimo futuro”.

Il nuovo anno è ormai arrivato ma Roma sembra affetta dai soliti, atavici, problemi. L’isolamento delle periferie, i servizi pubblici claudicanti, sono alcune delle sfide che la Città eterna dovrà affrontare nei prossimi anni. Reporter nuovo ha contattato Domenico De Masi, sociologo e professore emerito all’università “La Sapienza” di Roma  per un’analisi dei problemi della Capitale come punto di partenza per giungere a proposte futuribili in grado di rilanciare la “città-mondo” per antonomasia.

 

Professore, cosa significa il concetto di “città-mondo” riferito a Roma?

«Partirei da una definizione che Cavour diede di Roma. Disse: “In Roma concorrono tutte le circostanze storiche e intellettuali atte a determinare la capitale di uno Stato”. A cosa si riferiva Cavour? Al fatto che Roma contiene in sé la sintesi e la rielaborazione sublimata di tutte le ricchezze storiche del nostro Paese. Questo perché l’Italia, per come la concepiamo oggi, ha senso solo in funzione della storia universale di Roma, i cui effetti si sono manifestati ben oltre i propri confini territoriali, condizionando il destino di tanti popoli».

 

E qual è la situazione oggi? Roma esercita ancora un’attrattiva universale?

«Indubbiamente, ma non può più adagiarsi sugli allori. Roma è una città sublime, ma al mondo stanno emergendo altre città meravigliose, se pure per motivi differenti. Mi riferisco a città fino a pochi decenni fa sconosciute, che ogni giorno attraggono fior di investimenti e che danno al mondo intero un motivo ben preciso e quasi unico per essere visitate. Penso a Dubai, dove operano i migliori architetti del pianeta, a Bangkok, ma anche a città storiche come Parigi e Londra, capaci di rinnovarsi. Il senso di eternità che Roma può vantare deve restare il suo unicum, ma non può diventare una scusa per scadere nell’immobilismo».

 

In quali aspetti appare più evidente questo immobilismo?

«Nelle periferie più estreme, ridotte a nuclei isolati totalmente scollegati dai contesti più vivi e pulsanti della città. Sono nate male, concepite come dormitori, dove gli unici servizi attivi per gli abitanti sono mastodontici centri commerciali. Oggi appaiono emarginate soprattutto da un punto di vista culturale. È in questi centri che bisognerebbe intervenire con la massima urgenza».

 

Intervenire, già, ma come? E con quali risorse?

«Lo Stato dovrebbe tornare ad occuparsi della propria capitale in modo diretto e con investimenti costanti e mirati, come accadeva prima della guerra. Questo tipo di intervento oggi avviene, in parte, solo quando il sindaco risulta politicamente vicino al Governo. Eppure ci si dovrebbe rendere conto del fatto che Roma si fa carico di spese enormi a nome e per conto di tutta l’Italia. Mi limito a citare come esempi i costi relativi alle visite dei dignitari stranieri e alle manifestazioni nazionali.
Credo, inoltre, che siano maturi i tempi per realizzare compiutamente il decentramento amministrativo di cui Roma avrebbe bisogno. Ci vogliono più poteri e più soldi alle singole circoscrizioni (i municipi) che potranno così amministrare il territorio con maggiore efficienza».

 

In che misura ritiene che la politica sia colpevole del dissesto in cui oggi versa Roma?

«Le colpe recenti della politica sono sotto gli occhi di tutti. Nel giro di quindici anni siamo passati da amministrazioni che hanno favorito il proliferare della criminalità e del malcostume, ad altre rivelatesi per nulla all’altezza di assolvere un compito tanto gravoso come il governo di una capitale. Tuttavia, sarebbe veramente da sciocchi scaricare tutte le responsabilità sulla classe dirigente. La verità, che spesso i romani non vogliono sentirsi dire, come dimostrato dall’atteggiamento di alcuni dei presenti quest’oggi, è che se Roma è ridotta così, le colpe sono anche dei cittadini».

 

Può spiegarsi meglio?

«Il fatto è che il popolo romano è poco reattivo e, in generale, manca di senso civico. Ci si aspetta sempre che la politica risolva i problemi, ma cosa facciamo noi per aiutarla? Come interveniamo noi in favore della nostra città? Pagare le tasse non può bastare, è evidente. Ma dove è scritto che debba bastare? I romani hanno tutto il diritto di pretendere amministratori di alto profilo, ma non ci vedo nulla di male a darsi da fare in concreto, ciascuno nel proprio piccolo e secondo le proprie possibilità. Mi sembra assai più sensato che attendere passivamente un avvicendamento risolutivo in Campidoglio. Io non sono di Roma, ma vivo qui ormai da molti anni e ho imparato a conoscerne gli umori; quasi tutti si riempiono la bocca del loro amore verso la città, ma pochi traducono le parole in fatti. Dovremmo diventare cittadini più seri, attivi e consapevoli.
Naturalmente generalizzare è sempre sbagliato: io ripartirei da quei 76.000 romani che ogni anno si impegnano nel volontariato e che sono il sale della comunità. Anche grazie a loro, possiamo sperare che nel 2030 Roma torni ad essere il centro del mondo».

 

 

[Crediti foto: www.publicdomainpictures.net]