«Sono una specie di miracolo tecnico. A quindici anni non sapevo nuotare, a venti ho vinto le Olimpiadi». Parola di Giancarlo Guerrini, classe 1939, ex pallanuotista e medaglia d’oro ai Giochi di Roma del 1960. Unico atleta di casa capace di salire sul gradino più alto del podio in quell’edizione, la diciassettesima dell’Era Moderna, la sola organizzata nel nostro Paese. Da quel trionfo sono trascorsi sessant’anni.
Il ragazzo di Monte Mario, quartiere a nord-ovest della città, non ha molta confidenza con l’acqua. Un giorno va al mare a Ostia e rischia di annegare. Su consiglio del padre inizia a frequentare la piscina e dopo poche lezioni si scopre a suo agio. È rapido, ha una buona linea di galleggiamento e in breve tempo entra nel giro della nazionale. Attaccante d’ala, è un ottimo contropiedista, il più veloce di tutti. Tanto da essere scelto come riserva nella staffetta olimpica 4 x 200 metri di nuoto.
«L’allenatore Andres Zòlyomy ci prese nel ’57 e fece un grande lavoro. Era un ungherese “napoletanizzato”, perché nella città partenopea aveva conosciuto l’Italia e se n’era innamorato. Un genio, un precursore. Con lui girammo l’Europa. Dal suo Paese d’origine, per studiare i segreti dei maestri magiari, alla Jugoslavia, dove prendemmo calci e pugni, perché quei giocatori avevano qualità ma erano veri e propri “taglialegna”. Fu un progetto ambizioso, curato in ogni dettaglio. Negli anni capimmo la pallanuoto che aveva in testa».
La preparazione è al Centro Sportivo Acqua Acetosa, nel quartiere romano dei Parioli. Tre allenamenti al giorno: ore sette, dieci e trenta, più la partitella serale. I muscoli sono pesanti, fanno male. «A pranzo poggiavamo i gomiti sulla tavola, non riuscivamo a portare le posate alla bocca. Allora ci abbassavamo e mangiavamo muovendo il polso».
Il momento si avvicina e il giovane scalpita, orgoglioso ma incredulo. «Vi rendete conto? Le Olimpiadi a casa mia. Ero come nel Paese delle Meraviglie. Mi guardavo allo specchio chiedendomi se sarei stato all’altezza. In fondo ero solo un ragazzo di vent’anni, che nuotava e seguiva il calcio».
Nulla viene lasciato al caso, neanche la dolorosa rinuncia alla cerimonia d’apertura del 25 agosto. Una giornata memorabile, culminata con l’accensione della fiamma olimpica da parte di Giancarlo Peris, mezzofondista di Civitavecchia, ultimo di 1198 tedofori. Proprio quella sera c’è l’esordio con la Romania. È l’inizio di un percorso netto, tutte vittorie a eccezione di un pareggio nella fase finale. È il 3 settembre 1960, quando il cloro della piscina olimpica si tinge d’azzurro e i nostri alfieri si mettono al collo la medaglia d’oro. Sono stati i più forti, hanno battuto giganti come Unione Sovietica e Ungheria, argento e bronzo.
L’edizione romana segna uno spartiacque nella storia dei Giochi. Più di 5300 atleti, 83 nazioni partecipanti, oltre 100 ore di diretta televisiva in 18 paesi del mondo. L’Italia si conferma anche sul campo. Con 13 ori, 10 argenti e 13 bronzi è terza nel medagliere. La Città Eterna spedisce cartoline di uno sport pulito, fatto di grandi campioni, ma anche persone semplici, genuine. Per le strade si incontra la squadra giapponese piegata sulla cartina, che studia i vicoli del centro, si vedono atleti che danno le spalle alla Fontana di Trevi, lanciando monete per i loro desideri. C’è anche un diciottenne pugile statunitense, che per rilassarsi prende a pugni colleghi italiani più esili. Muhammad Alì, al secolo Cassius Clay, trionferà nella categoria dei mediomassimi. Gli anni successivi quel carismatico ragazzone del Kentucky sarebbe diventato lo sportivo più influente del Novecento, capace di spostare le masse nella battaglia a favore degli afroamericani.
«La città era entusiasta, pulita e piena di turisti. Ogni cosa funzionava a meraviglia. Allo Stadio del Nuoto dovettero costruire altre tribune per aumentare la capienza a 35.000 persone. E durante le partite del Settebello c’era il tutto esaurito. Immaginate il tifo. Per non parlare del Villaggio Olimpico, un altro miracolo di organizzazione. Al centro trovavi una strada zeppa di ristoranti e locali sempre aperti. Volevi un piatto di spaghetti all’una di notte? Nessun problema. Certo, dovevamo porci un limite per via delle gare. E dopo mangiato tutti al “Club”, un grande salone dove gli atleti si incontravano. La statunitense Wilma Rudolph attirava su di sé gli sguardi. Con tre medaglie d’oro nell’atletica è stata l’indiscussa regina dei Giochi. Ma anche altri personaggi catturavano l’attenzione: dal sollevatore sovietico Yuri Vlasov, un omone muscoloso di centocinquanta chili, al nostro pugile Nino Benvenuti, con cui è nata una sincera amicizia. Era bello entrare in contatto con culture e tradizioni diverse. Pensate che avevo scambiato il mio cappello borsalino con il turbante di un indiano. Insieme al duecentista Livio Berruti l’ultima notte facemmo le ore piccole. Guidavo la mia Lambretta per le strade senza traffico, portando quello strano copricapo. Quante risate».
L’ex pallanuotista proseguirà la carriera sportiva partecipando ad altre due edizioni dei Giochi, Tokyo ’64 e Città del Messico ‘68. In entrambe le occasioni la spedizione azzurra arriverà quarta. In Italia gioca con la Pro Recco, vince tre scudetti e una Coppa dei Campioni. Poi si dedica agli studi, laureandosi in Scienze economiche. Impara tre lingue e diventa Segretario Generale della Federazione Nuoto e Scherma, collaborando con Giulio Onesti, dal 1946 al 1978 Presidente del Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI). Per quella vittoria riceve importanti onoreficenze: l’Ordine al merito della Repubblica con il grado di Cavaliere e il Collare d’Oro al merito sportivo. Oggi non segue più con continuità la sua vecchia disciplina: «la pallanuoto è diversa, basata sul centravanti e la superiorità numerica. Nessuno si distende più in contropiede, si gioca da fermi».
Quando gli chiediamo un’immagine simbolo della “sua” Olimpiade, Giancarlo non ha dubbi. Sceglie un ventottenne maratoneta etiope, che di mestiere fa da guardia del corpo all’imperatore. «Al Villaggio vedevo spesso Abebe Bikila. Veniva a mangiare al ristorante italiano, cercava la pasta per il carico di carboidrati. Ragazzo taciturno, ma simpatico. Quella sera ha scritto la Storia. Vincere a piedi scalzi sotto l’Arco di Costantino lo ha reso una leggenda».
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