«Accogliamo la notizia con gioia e trepidazione, chiediamo questo cambio di nome da mezzo secolo». E’ così che il Cleveland American Indian Movement, una delle associazioni che raggruppa i nativi che vivono in Ohio, commenta a Zeta la decisione della squadra di baseball statunitense Cleveland Indians di modificare il suo nome ed eliminare così il riferimento agli indiani, giudicato offensivo e discriminatorio verso la minoranza indigena.
L’annuncio, anticipato da diversi media, è stato ufficializzato lo scorso 15 dicembre dalla società con un comunicato stampa. «Il nome non è più accettabile nel nostro mondo», ha spiegato Paul Dolan, proprietario della squadra, in un’intervista all’Associated Press.
All’inizio del 2018, il club sportivo aveva già fatto un primo passo in questa direzione e aveva cancellato dalle uniformi dei propri giocatori il logo di Chief Wahoo, un cartone rappresentante la testa di un capo indiano, considerato dalle comunità locali un’appropriazione caricaturale e razzista di un simbolo appartenente alla cultura indiana.
Stando a una storiella assai diffusa e controversa, nel lontano 1915 la squadra scelse di chiamarsi Cleveland Indians per onorare Louis Sockalexis, il primo nativo a giocare nelle big leagues, i campionati più prestigiosi del baseball targato Usa. Le ricerche del giornalista sportivo Joe Posnanski sembrano mettere in discussione questa versione: il team avrebbe piuttosto deciso di darsi un simile nome per sfruttare i cliché razzisti sugli indiani, assai diffusi all’epoca nel mondo sportivo, e farsi così promozione.
Il processo di rebranding dei “Cleveland Indians” prenderà del tempo e costerà soldi. Per il team dell’Ohio il periodo di transizione durerà fino al 2022, quando verrà finalmente annunciato il nuovo nome.
«La squadra continuerà ad usare il soprannome di “Indians” nella prossima stagione, il che smentisce l’apparente preoccupazione della compagnia sul danno che sta causando agli indigeni e alla nostra comunità», non manca di annotare con criticità il Cleveland American Indian Movement.
Il team di Cleveland non è il primo a rinominarsi. Lo scorso luglio, la squadra di football di Washington ha modificato la sua storica denominazione e cancellato il soprannome “Redskins”, pellirosse. Sulla decisione hanno pesato le pressioni di sponsor, come FedEx, Nike e PepsiCo, che hanno spinto per un rebranding sulla scia delle manifestazioni del movimento Black Lives Matter.
Le proteste antirazziste esplose lo scorso giugno a seguito della morte di George Floyd, afroamericano ucciso dalla polizia, hanno innescato una vera e propria rivoluzione culturale. Migliaia di persone sono scese in strada negli Stati Uniti per chiedere un maggiore rispetto dei diritti delle minoranze, puntando il dito verso le ingiustizie ancora presenti nella società americana. Le statue di personaggi storici e di diversi generali sudisti, che durante la Guerra di secessione difesero la schiavitù dei neri, sono state abbattute.
Questo cambio di passo e di sensibilità ha sfondato anche le porte delle principali league sportive del paese. Nell’ottica di contrastare il razzismo, la Major League di Baseball, che riunisce le più brillanti squadre di baseball statunitensi, ha annunciato il 16 dicembre che includerà nel registro dei record anche i successi ottenuti dai giocatori afroamericani nella Negro League, un campionato in passato disputato in prevalenza da neri e finora escluso dalle statistiche.
«C’è stato un effetto domino», spiega a Zeta Joe Posnanski, firma di The Athletics ed esperto di baseball. «Il team di Washington ha cambiato nome perché alcuni sponsor rilevanti si sono fatti avanti dicendo che non avrebbero più fatto pubblicità e affari con il team se il nome non fosse stato modificato. Credo che la squadra di Cleveland stesse pensando da tempo di cambiarlo a sua volta. Ma forse avrebbero continuato ad esitare e blaterare per anni. Il cambiamento dei Washington – che è stato il diretto risultato di considerazioni di natura commerciale – ha alterato i programmi di tutti».
Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, agli sgoccioli del suo mandato, ha criticato in un tweet la decisione dei Cleveland, bollandola come un esempio di “cancel culture”, ossia come un colpo di spugna a una tradizione storica, e per questo intoccabile, quasi sacra.
«Non c’è niente che viene cancellato qui», continua Posnanski. «Il team se la caverà benissimo con un nuovo nome e una nuova identità».
I riferimenti ai rituali, alla simbologia e ai soprannomi propri della cultura indiana sono ancora diffusi nel mondo sportivo, come nel caso della squadra di baseball Atlanta Braves, il cui nome rinvia ai guerrieri indiani. Durante le partite, tra i suoi fan, così come tra i supporter di altri team, è diffuso il gesto del “Tomahowk Chop”, che consiste nel muovere il braccio avanti e indietro per mimare l’utilizzo della scure indiana (il tomahowk). Questa coreografia è da tempo oggetto di critiche da parte dei nativi perché giudicata rappresentativa di una caricatura parodica e offensiva del loro popolo.
Gli Atlanta Braves non sembrano intenzionati per ora a cambiare nome ma avrebbero avviato una discussione per limitare l’uso del “Tomahowk Chop”.
«I nativi americani hanno una storia così dolorosa e torturata negli Stati Uniti, una storia che include genocidio e separazione, che non c’è semplicemente alcun motivo per una squadra sportiva di cercare di attingere a quella storia», conclude Posnanski. «Gli Atlanta Braves, i Chicago Blackhawks, i Kansas City Chiefs e altri, col tempo, cambieranno i loro nomi. Ci vorrà un decennio, ma il conto alla rovescia è già partito».