«Hai visto Dio, compagno Gagarin?».
«No, compagno segretario. Non l’ho visto».
«Allora non dirlo a nessuno».
Aneddoto propagandistico o realtà? Difficile rispondere. Protagonisti di questa conversazione Nikita Krusciov, al tempo segretario generale del PCUS (Partito Comunista dell’Unione Sovietica), e l’astronauta Jurij Gagarin, nel 1961 primo uomo nello spazio. «La Terra è azzurra», esclamò una volta in orbita, a bordo della navicella Vostok 1. Il prossimo 12 aprile saranno trascorsi sessant’anni dall’impresa del cosmonauta, nato nel 1934 nel villaggio povero di Klisino e morto, appena trentaquattrenne, per un incidente aereo. Il suo mito ha però superato tempo e confini, rendendolo ancora oggi tra le immagini più iconiche della prima era spaziale. «Un periodo storico da analizzare in chiave geopolitica, senza sfumature romantiche. Nulla che unisse mondi e popoli, ma un vero e proprio scontro militare tra Stati Uniti e Unione Sovietica». Zeta ha intervistato Marcello Spagnulo, ingegnere aeronautico, scrittore, docente universitario e presidente del Marscenter, società aerospaziale italiana di ingegneria.
Quando nasce la corsa allo spazio?
«Nelle fasi finali della Seconda Guerra Mondiale, in Germania. Numerosi scienziati tedeschi progettavano razzi V2 con l’obiettivo di bombardare Londra. Un potenziale bellico che non sfuggì ad americani e sovietici, che provarono ad accaparrarseli. Tra loro, anche Wernher Von Braun, che si arrese agli Stati Uniti, acquisendo la cittadinanza. Lo spazio divenne elemento di propaganda mediatica, perché lanciare missili aveva sul pubblico un impatto più grande di una bomba nucleare, che spaventava. Così, negli anni ’50 e 60’, tra le due potenze iniziò una gara esasperata per arrivare primi. Dal lancio dei satelliti fino agli uomini».
Anche gli animali?
«Certo. I primi esseri viventi cosmonauti furono i cani. In Unione Sovietica c’era un piccolo ‘esercito’. Alcuni sono morti, altri hanno fatto ritorno incolumi. Fino al mese precedente la missione di Gagarin, quando venne lanciata una capsula con dentro una cagnolina e un manichino, che serviva a simulare un uomo su un seggiolino eiettabile e munito di paracadute. Gli americani, invece, mandavano gli scimpanzé, più antropomorfi e in grado di svolgere operazioni varie, come spingere pulsanti. Il pioniere tra le scimmie si chiamava Ham, prosciutto, in inglese».
Cosa rappresentò la corsa allo spazio?
«Una dimensione scientifica, ma anche strategica. Voleva dire conoscere ambienti oltre l’atmosfera e registrare le dinamiche del nostro pianeta. I primi razzi avevano sonde munite di sensori, così da misurare la composizione chimica dell’aria. E poi c’era l’aspetto politico e tattico. Al contrario degli aerei, un satellite poteva sorvolare un Paese senza violarne la sovranità territoriale. Era un contesto di confronto, chi arrivava primo aveva il predominio. Su questo doppio binario, Russia e Stati Uniti pubblicizzarono le loro missioni. Ecco spiegato l’importante movimento giornalistico, cinematografico, di opinione. Ad esempio, l’allora Presidente John Fitzgerald Kennedy promise agli americani che sarebbero andati sulla Luna entro gli anni Sessanta, rilasciando interviste a riviste di grande tiratura, perché il cittadino comune leggeva il settimanale illustrato».
Chi era Jurij Gagarin?
«Un personaggio da studiare. Terzo di quattro fratelli, crebbe nella povertà, in una capanna di fango. Brillante, determinato, diventò pilota e finì sugli aerei MiG, a sorvolare il Mar Glaciale Artico. Nella seconda metà degli anni’50 partecipò a un bando, con in palio la guida di un nuovo dispositivo. Si trattava del futuro Vostok-1, ma non era specificato. Venne selezionato tra quattromila candidati, ma per alcuni di loro non fu una sorpresa. Aleksej Leonov – quarto della lista e primo a ‘passeggiare’ fuori dalla navicella nel 1964 – disse che era “nato con le ali”. Gagarin era l’esempio del ragazzo dalle doti innate, che ce l’aveva fatta. Per questo raggiunse il successo anche in Occidente. Sorridente, ispirava simpatia, a dispetto dei luoghi comuni sull’uomo sovietico. Fu un colpo mediatico clamoroso: l’eroe del Paese comunista era una persona a cui tutti volevano bene».
Ci racconta qualche aneddoto di quel giorno?
«Pare che a colazione abbia bevuto una coppa di champagne e costretto a fermare il pulmino per urinare, lungo il viale che dalla base porta alla rampa di lancio. Da quel momento, è diventato un gesto scaramantico, in voga tra tutti i cosmonauti. Anche il nostro Luca Parmitano lo ha fatto. Inoltre, quando era a bordo e ascoltava le istruzioni che precedevano il decollo, le interruppe esclamando: ‘Pojéchali!’, ‘Andiamo!’».
La sua morte è un mistero?
«No, è l’aneddotica che ha preso il sopravvento. Nessuno ne avrebbe tratto vantaggio. Ha avuto un incidente, non c’è stato alcun sabotaggio. Gagarin era stimato, benvoluto da tutti, basti pensare che dopo quella missione gli venne impedito di volare, per proteggerlo da ogni rischio. Ma lui insisteva. D’altronde, ‘aveva le ali’».
Che eredità ha lasciato?
«È stato fondamentale. Quando l’astronauta statunitense Neil Armstrong – primo uomo sulla Luna – visitò la camera da letto di Gagarin nella Città delle stelle (centro militare d’addestramento e ricerca spaziale fuori Mosca, ndr), sul libro delle firme scrisse: “Ha indicato la strada a tutti noi”. Non furono parole casuali. Gli americani andarono sulla Luna perché qualcuno prima di loro era stato nello spazio. E anche in futuro dimostrarono quanto fosse stata importante quella data: il 12 aprile del 1981 lo Shuttle Columbia partì per la prima missione spaziale del Programma Space Shuttle».
Come prosegue oggi la conquista del cosmo?
«Alcuni opinionisti parlano di nuova corsa allo spazio, mettendo la Cina – che in questo settore sta raggiungendo successi incredibili – al posto dell’Unione Sovietica. Non sono d’accordo, il paragone non tiene. Quella era una potenza militare, non economica, al contrario di Pechino, inserito a pieno nel sistema finanziario globale. Mezzo secolo fa era futuribile pensare di sfruttare le risorse del cosmo. Oggi ci si va per dominare il pianeta. L’obiettivo è simile, le declinazioni diverse».