Altro che Mata Hari, l’agente a passo di danza giustiziata un secolo fa come spia tedesca. Molto più dell’iconica «M», che con il volto di Judi Dench guida lo spionaggio inglese nei film di 007. Supera la grande storia e fa invecchiare il cinema la nomina di Elisabetta Belloni ai vertici del Dis, i servizi segreti italiani. È la prima donna a ricoprire questo incarico. Laureata in Scienze politiche all’Università Luiss, l’ambasciatrice Belloni vanta una lunga carriera diplomatica. Dal 2016 era segretario generale del ministero degli Esteri.
«La sua nomina segna una discontinuità che si misura per la sostanza politica, non solo per il valore simbolico – spiega a Zeta Carlo Bonini, vicedirettore di Repubblica e autore di Suburra – Uno dei gangli più delicati della vita del paese torna a una dimensione pienamente istituzionale». Con una mossa che rispecchia la scelta del presidente Biden di nominare un diplomatico di lungo corso come William Burns al vertice della Cia, «Draghi rende il nuovo capo dell’intelligence più simile alla figura del consigliere per la sicurezza nazionale».
Nei paesi anglosassoni la presenza di donne ai vertici dell’intelligence è una tradizione consolidata, da Condoleezza Rice a fianco di Bush fino a dirigenti donne all’MI5 inglese. Alla Cia figure femminili occupano da tempo posizioni di rilievo, nel Mossad israeliano il 40% dello staff è composto da donne. Ora tocca all’Italia fare un passo importante e non solo sul piano della parità di genere. Continua Bonini: «Una donna alla guida dei Servizi porterà uno sguardo femminile su materie di competenza maschile: una sensibilità diversa e un diverso stile di comando».
Quattro anni fa, presentando un progetto per reclutare nuove spie, il capo dell’MI6 britannico disse di voler dare più spazio alle agenti donne, considerate più adatte alle sfide della moderna intelligence. Tra coloro che gli diedero ascolto, dall’altra parte dell’Oceano, c’era anche Donald Trump, che nel 2018 scelse la prima donna direttrice della Cia. Guardando alla carriera di Gina Haspel, è però chiaro che il presidente conservava una visione tradizionale dello spionaggio. Poca tecnologia e tanti muscoli. Haspel aveva una fama da «dura», in una carriera segnata da polemiche per l’utilizzo di torture come il waterboarding.
Con la sua nomina ai vertici della Cia, Washington ha messo in pratica ciò che Londra aveva immaginato al cinema. Nel ’95 i produttori di 007 affidarono a una donna il ruolo di «M», direttore dello spionaggio all’estero del Regno Unito. La Gran Bretagna aveva in casa l’ispirazione per la scelta di Judi Dench (presente in sette film della saga, da GoldenEye a Skyfall): tre anni prima Stella Rimington era stata nominata a capo dell’MI5, il servizio di controspionaggio inglese. Non il leggendario MI6, ma la strada era tracciata.
La mossa del cinema di scommettere su una donna ai Servizi nasceva dall’esigenza di compensare il machismo di James Bond: bisognava stemperare l’immagine dell’agente con licenza di uccidere che considera le donne come oggetti da collezione. È in quest’ottica che va letta la scelta della produzione di affiancare una 007 a Daniel Craig, nel prossimo film della serie (atteso nelle sale nel 2021). Nelle prime scene di No Time to Die – data l’assenza di Bond, ormai pronto al ritiro – a interpretare il personaggio reso immortale da Sean Connery sarà l’attrice Lashana Lynch. Donna e di colore.
Nella realtà vera e in quella del cinema, l’azione dei servizi segreti prevede uno slancio eroico per cui servono intelligenza, coraggio e forza fisica. Lo sapevano bene le donne addestrate dal Kgb per irretire vip del blocco avversario e poi ricattarli per i loro scopi. Fino a pochi anni fa, dentro e fuori lo schermo, la storia dello spionaggio era fatta da uomini o al massimo da femmes fatales. Oggi tutto è cambiato. Con meno romanticismo e molta più concretezza, Elisabetta Belloni e le nuove cape dell’intelligence sono il volto in penombra di un’emancipazione raggiunta. Ma i loro successi resteranno nascosti.