Tre epoche storiche diverse, un unico punto di vista: quello femminile. Dorothea Lange, Tina Modotti, Eve Arnold, Letizia Battaglia, Annie Leibovitz, Graciela Iturbide, Susan Meiselas e Newsha Tavakolian sono solo alcune delle trenta grandi fotografe che hanno immortalato la realtà del proprio tempo. Attraverso l’obiettivo delle loro macchine fotografiche, hanno raccontato il cambiamento dei costumi sociali e del ruolo della donna nel Novecento, l’affermazione della società dei consumi e le diverse sfumature della figura femminile nei Paesi extra-occidentali.
Walter Guadagnini, professore di Storia della fotografia all’Accademia di Belle Arti di Bologna dal 1990, per la mostra “Essere umane. Le grandi fotografe raccontano il mondo” ha selezionato, insieme ai curatori Monica Fantini e Fabio Lazzari, 310 scatti che hanno reso eterni volti comuni ed eventi storici, rendendo la fotografia uno strumento di indagine e di riflessione, a volte più poetica e altre volte più cruda. La mostra, ospitata dai musei di San Domenico a Forlì dal 18 settembre 2021 al 30 gennaio 2022, è suddivisa in tre sezioni che ripercorrono la quotidianità, i momenti di rottura e di evoluzione del secolo breve, vissuti da donne completamente diverse tra loro.
Gli anni 1930-1950
Nella prima sezione, la fotografa statunitense Dorothea Lange racconta gli anni della Grande Depressione attraverso il viso stravolto dalla sofferenza di una madre costretta a migrare in California in cerca di fortuna con i suoi sette figli (Migrant mother, 1936). Ruth Orkin immortala il fascino etereo della sua amica pittrice Ninalee Craig mentre, passeggiando per le strade di Firenze, cattura l’attenzione di alcuni ragazzi che iniziano a corteggiarla (American girl in Italy, 1951). Se Tina Modotti rappresenta l’impegno politico femminile con il profilo fiero di una manifestante comunista messicana (Donna con bandiera, 1928), Eve Arnold “ruba” alcuni retroscena di una sfilata di moda nel quartiere afroamericano di Harlem, a New York (Fashion show in Harlem, 1950). Immagini che convinceranno il fotografo francese Henri Cartier-Bresson ad assumerla nella prestigiosa agenzia fotografica parigina Magnum, fondata da Robert Capa.
Gli anni 1960-1980
La seconda sezione, invece, si apre con Mask series (1959-63), una serie di maschere realizzate con sacchetti di carta sui quali il disegnatore statunitense di origini rumene Saul Steinberg ha disegnato una serie di facce stilizzate, indossate dallo stesso Steinberg e dai suoi amici, e fotografate da Inge Morath. Ma le immagini diventano anche un mezzo di approccio alle civiltà molto lontane da quella occidentale, attraverso gli scatti di Graciela Iturbide che, pur avendo fatto del bianco e nero il suo segno di riconoscimento, riesce a trasmettere i colori brillanti della cultura messicana attraverso copricapi variopinti fatti di iguane vive (Nuestra señora de las iguanas, 1979) e corone di fiori (Conversación, 1986). Con l’italiana Letizia Battaglia, infine, la fotografia diventa uno strumento di denuncia sociale contro la povertà (Bambina con sacchetto di pane, 1980) e la violenza di Cosa nostra a Palermo durante gli anni di piombo (Triplice omicidio, 1983).
Gli anni 1990-2010
La mostra si chiude con la fine del XX secolo e l’inizio del nuovo millennio, ma anche con due idee di femminilità diametralmente opposte. Da un lato, ci sono le donne guerrigliere delle FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) come Diana, 20enne colombiana che si è arruolata quando ne aveva soltanto 13, protagonista di uno degli scatti della fotografa iraniana Newsha Tavakolian (Diana, 20, 2017), alla quale racconta come la sua infanzia difficile l’abbia spinta ad unirsi al gruppo armato. Dall’altro, invece, lo sfarzo e la sontuosità del Palazzo Valguarnera di Palermo fa da sfondo alla serie Gli ultimi gattopardi – Ritratti dell’aristocrazia siciliana (1995-2007) della fotografa Shobha Stagnitta che, seguendo le orme della madre Letizia Battaglia, ritrae un’eleganza snob e senza tempo di alcune donne aristocratiche palermitane, parte di un mondo che sembra essersi fermato ai tempi di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Se “Essere umane” ripercorre in maniera accurata la storia del Novecento attraverso i punti di vista molteplici di tutte quelle donne che, con il loro obiettivo, ne sono state testimoni, allo stesso tempo lascia uscire il pubblico dalla porta dei musei con qualcosa in sospeso rispetto al mondo di oggi. Domestica (2020) della forlivese Silvia Camporesi rende perfettamente l’idea di un presente incerto, quello della pandemia, scandito dall’alternanza tra la quarantena e la voglia di ritornare alla normalità.
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