«Alla fine di ogni giorno, mi fermavo sempre da un calzolaio su Euclid Avenue, mettevo i piedi su un giornale e consegnavo le scarpe al proprietario». Così Margaret Bourke-White, la famosa fotografa statunitense, ricorda la rapidità con cui i tacchi delle sue scarpe si consumavano durante i suoi primi tempi a Cleveland, in Ohio. Era approdata in quella “terra promessa” fatta di turbine e fornaci, a metà degli anni 30, per reinventarsi un’identità di fotografa.
Era stata una bambina molto desiderata, venuta al mondo non per caso, ma come atteso risultato di un atto di amore. Glielo ripeteva sempre sua mamma che la credeva destinata ad essere una «creatura meravigliosa». Le previsioni materne sulla teoria dell’invito al mondo si erano poi rivelate esatte.
La retrospettiva Prima, donna in mostra al museo di Roma in Trastevere fino al 30 aprile, restituisce appieno la straordinarietà del suo percorso esistenziale, coraggioso, controcorrente, visionario. Le oltre 100 immagini esposte parlano dell’entusiasmo vitale che attraversava quell’esile corpicino che con disinvoltura si arrampicava sui ponteggi, vicino alle grandi colate di metallo fuso, correndo il rischio di fondere l’obiettivo della sua macchina fotografica.
«Se ti trovi a trecento metri di altezza, fingi che siano solo tre, rilassati e lavora con calma», era uno dei suoi motti. La prima a sperimentare la fotografia aerea, dunque, ma non solo. La prima a cogliere l’incanto delle acciaierie nelle curve sinuose dei cavi arrotolati, nei profili armonici delle lamine per la rifilatura. La prima a raccontare, insieme allo scrittore Erskine Caldwell, gli effetti devastanti della Grande Depressione negli USA. Una narrazione a quattro mani, senza tempo, articolata in parole e immagini, che nella pagina si rincorrono fino a completarsi, proprio come gli autori, prima compagni di viaggio poi amanti.
La prima straniera a raccontare la vita quotidiana a Mosca all’epoca del piano quinquennale stalinista. Lesta e spigliata, aveva imparato in fretta quando chiudere l’obiettivo e scivolare al riparo nei rifugi. Avrebbe sopportato qualsiasi rischio pur di realizzare quegli scatti espressivi, sviluppati nella vasca da bagno con gli allarmi aerei di sottofondo. E quando le ispezioni delle guardie lo richiedevano, si nascondeva sotto il letto con un cronometro tra le mani in attesa di tornare alle sue pellicole prima che si sciupassero. Con scarpe e fiocco rosso tra i capelli, colore caro ai russi, riuscì persino a trovarsi faccia a faccia con Stalin per farne il suo ritratto.
La prima ad indossare una divisa da corrispondente di guerra per raccontare il “fronte dimenticato” della seconda guerra mondiale. E poi, la prima a registrare l’orrore di Buchenwald, uno dei più grandi campi di concentramento della Germania nazista, a testimoniare l’India all’epoca della sua drammatica separazione con il Pakistan e l’unica a ritrarre il Mahatma Gandhi negli ultimi anni di vita. La prima a scendere sottoterra con i minatori in Sud Africa e ad usare la macchina fotografica contro il razzismo e il segregazionismo.
La prima a passare dall’altra parte dell’obiettivo quando il morbo Parkinson riuscì ad indebolire il suo corpo ma non il suo singolare talento narrativo e il suo desiderio di condividere ciò che aveva imparato con il resto del mondo.
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