«Sono un ebreo. Da bambino ho vissuto in questa casa. Vorrei parlare con una suora». Il citofono del convento di Via Poggio Moiano a Roma restituisce la voce di Lello Dell’Ariccia, 85 anni. Nel 1943 le mura dell’istituto religioso l’hanno protetto dai rastrellamenti nazisti. «È come ai miei tempi. Vorrei vedere il secondo piano, dove abitavamo». Aveva appena sei anni quando le Suore Francescane della Misericordia di Lussemburgo hanno salvato dalla furia nazista lui, la mamma e il fratellino. Per caso, i tre hanno evitato la razzia del 16 ottobre: i nazisti avevano prelevato gli ebrei dalle proprie case per deportarli nei campi di concentramento. Lo stesso giorno Lello, già nascosto in una fattoria lungo Via del Casaletto, aveva raggiunto la casa della nonna. Dopo due ore e mezza di viaggio sotto la pioggia battente, un negoziante aveva strattonato la mamma per il braccio: un camion nazista aveva portato via la nonna, lo zio Amedeo e la cuginetta Ada, sette anni appena. «Mia madre ha assunto un silenzio gelido, allucinato. Guardava fisso davanti a sé e non diceva nulla. Improvvisamente ci ha preso per i polsi. Noi non avevamo capito nulla». Sul ritorno alla fattoria di Via del Casaletto, «mia madre svenne, e da quel giorno non è stata più la stessa».
La razzia del 16 ottobre 1943
Ottenuti gli indirizzi degli ebrei dai commissariati e dal Tribunale della Razza, i nazisti si presentavano casa per casa «con un bigliettino, scritto in pessimo italiano, che ordinava alle famiglie di uscire dalle case con poche vettovaglie e abbigliamento personale, ma con tutti i gioielli e i soldi» ricorda Lello. Il 10 settembre 1943 i soldati tedeschi hanno occupato Roma «dopo un’eroica ma perdente resistenza svolta da militari sbandati, intellettuali, studenti, operai e uomini e donne armati come meglio potevano. I tedeschi erano molto meglio armati, organizzati e comandati». All’epoca il colonnello tedesco Herbert Kappler, capo della Gestapo, aveva stabilito il proprio ufficio in un palazzo di Via Tasso: «Ancora oggi, a Roma, nominare Via Tasso equivale a pronunciare un nome lugubre, perché in quel palazzo c’erano le stanze di tortura. Dire “l’hanno portato a via Tasso” significava raccontare una tragedia. Il 26 settembre, Kappler convocò a via Tasso alcuni dirigenti della comunità ebraica e dichiarò che, se non gli fossero stati consegnati cinquanta chili d’oro entro quarantotto ore, duecento capifamiglia ebrei sarebbero stati deportati in Germania». Nonostante la povertà e la disoccupazione, i cinquanta chili di oro furono raccolti, grazie anche al contributo di tanti cittadini non ebrei, e consegnati a Kappler. «A loro non fu rilasciata una ricevuta proprio per paura che potesse comprometterli, quindi il loro nome non è stato registrato: non sappiamo chi sono né quanti fossero. A loro va la nostra riconoscenza». La maggioranza degli ebrei romani credette che Kappler avrebbe mantenuto la sua promessa. Così fecero ritorno nelle proprie case dove rimasero fino a quel terribile sabato del ’43 in cui uomini, donne, bambini e anziani vennero deportati ad Auschwitz.
Il Civico Giusto
Lello e la famiglia sono scappati in un convento di suore spagnole sotto le mura vaticane. Una notte tre suore hanno bussato alla porta: «Avevano molta paura, perché giravano voci di retate, perquisizioni e arresti nei conventi, così ci hanno cacciati via». Da un attimo all’altro si sono ritrovati nella notte in mezzo alle strade di Roma, pattugliate dalle SS. Da lì, hanno raggiunto la casa di amiche della mamma, e infine il convento di Via Poggio Moiano. «Abitavano lì sei o sette famiglie di ebrei e i padri e due ufficiali italiani che avevano rifiutato di combattere con i nazisti e che quindi rischiavano la fucilazione». Anche qui, però, si è ripetuta la scena già vissuta: nella notte le suore hanno bussato alla porta per avvertire gli ospiti dei controlli dei nazisti. L’unica arma per proteggerli sarebbe stata la preghiera: «Ci sentiremmo più tranquille se potessimo mettere nella vostra stanza un’immagine della nostra Madonnina». La mamma, spaventata, non ha detto una parola. «Le suore hanno estratto dalla borsa della spesa una decalcomania coloratissima, e l’hanno attaccata sulla porta della stanza. Poi ci hanno sorriso, un sorriso rimasto impresso nella mia memoria». Oggi sulla porta del convento è stata apposta la targa del progetto “Il Civico Giusto”, un omaggio alla forza e al coraggio di chi, in un momento buio, non si è voltato dall’altra parte, mettendo a rischio persino la propria vita pur di salvare quella di altri. «I conventi non hanno ricevuto ordini dall’alto, ma si sono comportati secondo coscienza. Alcune Madri Superiore hanno ritenuto giusto rischiare la propria vita, quella delle consorelle e l’esistenza dei loro istituti per aiutare dei disperati, dei perseguitati».
Chi non si voltava dall’altra parte
Lello ricorda con emozione anche l’affetto e l’amicizia con la famiglia di Fulvia Ronchetta e Mario Marozzini. «Oltre alle leggi razziste, ai divieti, alle espulsioni, ai licenziamenti, alla requisizione di tutte le proprietà immobiliari, alla disoccupazione e alla povertà, ciò che più ha indignato e offeso i cittadini ebrei è stata l’indifferenza degli altri. Spesso le persone, se incontravano un amico o un conoscente ebreo, facevano finta di non vedere, guardavano dall’altra parte, attraversavano la strada per non salutare». Lello, però, ha vissuto un’esperienza diversa. «Noi abitavamo all’interno diciotto del palazzo. Una notte gli inquilini della porta di fronte hanno bussato alla porta dei miei genitori. Ci tengo a chiarire e definire le parole: hanno prima offerto e poi chiesto amicizia. Le nostre due famiglie sono diventate una sola». I due appartamenti avevano le porte sempre aperte: «Siamo cresciuti come fratelli, abbiamo frequentato le stesse scuole, le stesse persone e gli stessi amici, ci siamo laureati, ci siamo sposati, abbiamo avuto figli e nipoti e questi figli e nipoti sono ancora amici fra di loro. E ci vogliamo bene». Lello ha fatto nominare Fulvia e Mario “Giusti tra le nazioni”.
Il 4 giugno 1944
Quella stanza nel convento di via Poggio Moiano 6 è stata la casa di Lello per sette lunghi mesi durante i quali «tutti si sforzavano di far apparire quella vita clandestina, una vita normale». La sera del 4 giugno 1944 lo squillo del telefono ha attirato nei corridoi gli abitanti del convento, già sonnolenti in vestaglie e pigiami. In pochi secondi, la voce dall’altro capo del filo ha trasformato le paure in speranze e generato un boato di gioia: nel quartiere di San Giovanni sono arrivati gli americani. La mattina seguente anche l’ultimo palazzo di Roma, affacciato sulla Via Salaria ormai colma di militari tedeschi fuggitivi, ha accolto i liberatori. «Magari erano vecchi e brutti, ma io li ricordo giovani, belli e sorridenti, con la maglietta bianca, quella dei film dei marines» ricorda Lello. Per avvistare le truppe nemiche dall’ultimo piano, i soldati, rispettosi della sacralità del convento «si disarmarono. Appoggiarono incustoditi sul portone del monastero i mitra, le pistole e le baionette. Per noi fu il simbolo della libertà e della vita, che poteva ricominciare». Le esistenze a lungo compresse hanno affollato le strade: «Ricordo che tutti si incontravano e si abbracciavano, ma erano abbracci strani, un modo di palpare per accertarsi che la persona ritrovata fosse lì, ancora viva. E poi si scambiavano notizie su chi era morto e su chi era stato arrestato o deportato». Lello era piccolo, ma aveva già percepito il concetto di morte: «La sera pregavamo per il ritorno dalla Germania della nonna, di zio Amedeo e di Ada. Da un giorno all’altro, mamma non ci ha più fatto recitare preghiere per loro. Mi sono accorto che aveva rinunciato alla speranza di rivedere i suoi familiari».
L’importanza di mantenere viva la memoria
Oggi «un rapporto affettuosissimo» unisce Lello e le suore del convento che ha messo in salvo il suo futuro. Tuttavia, per non dimenticare il passato, Lello ha fondato Progetto Memoria, associazione che divulga i ricordi del tempo «affinché diventino una memoria condivisa, in particolare con i giovani. Desideriamo passare il testimone perché ognuno possa fare in modo che ciò che è accaduto non accada mai più, e non intendo solo agli ebrei, ma che non accada mai più che una dittatura, un governo o un’autorità si approprino della vita, della libertà e della dignità di altri esseri umani. Purtroppo succede ancora, in Ucraina e tra i disperati che annegano nel Mediterraneo nell’indifferenza di tutti. Noi invitiamo i ragazzi a tenere alta la guardia, per rendere il futuro migliore». Fondamentale per la sensibilizzazione dei giovani è quindi la trasmissione della memoria, sulla quale però Lello solleva una questione: «La nostra carta d’identità: siamo agli sgoccioli. Chi racconterà i fatti dopo di noi?».
Proprio pochi giorni fa la senatrice a vita Liliana Segre ha affermato che «Il pericolo dell’oblio c’è sempre. Una come me ritiene che tra qualche anno sulla Shoah ci sarà una riga tra i libri di storia e poi più neanche quella». Per Lello, «la frase ha una caratura un po’ pessimista, però contiene una profonda verità. La Shoah è stata un fenomeno unico, scientifico e programmato, una caccia all’uomo attuata casa per casa, indirizzo per indirizzo, in tutta Europa, basata sul concetto di religione come razza e, quindi, un insegnamento di pregiudizio e disprezzo nei confronti degli ebrei. In una parola, antisemitismo». Come dice Suor Clara, che dopo ottant’anni ha aperto a Lello le porte del convento di Via Poggio Moiano, occorre che «queste cose non si ripetano mai più. I giovani devono essere informati, perché la memoria non si può distruggere, va avanti e va coltivata per ricordare quei momenti difficili».
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Foto di copertina generata con Midjourney – Open AI