«Il Sudan è un paese che non ha mai conosciuto la democrazia, ma dopo la rivoluzione fatta dal popolo che era sceso per strada c’era speranza per un nuovo inizio. Ma con questi scontri la speranza è svanita». A parlare è Amr, ragazzo di origine sudanese che dal 2019 vive in Italia. «È una storia veramente complicata quella del mio paese. Dall’anno della sua indipendenza dall’Inghilterra nel 1956 a rivoluzioni fatte dal popolo per avere uno stato democratico, si sono sempre intervallati anni di dittature. In più di 60 anni di indipendenza, il Sudan ha conosciuto la democrazia per un totale di soli 10 anni».
Al centro della crisi del paese scoppiata il 15 aprile ci sono due uomini: Abdel Fattah al Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo, conosciuto anche come “Hemedti”. I protagonisti dei combattimenti sono i due personaggi più influenti della politica in Sudan: il primo è il presidente del governo di transizione del paese, a capo dell’esercito regolare, mentre il secondo è il suo vicepresidente, generale a capo delle Rapid Support Forces (Rfs), un gruppo paramilitare nato da miliziani di etnia araba che durante la guerra nella regione del Darfur, iniziata nel 2003, ha commesso massacri e torture, tanto da essere accusati di genocidio.
Ad ora negli scontri sono stati uccisi almeno 97 civili e sono rimaste ferite più di 300 persone, secondo quanto riferito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
«Grazie a Dio in questo momento i miei genitori e la mia sorella più piccola sono in Egitto, in vacanza. Sono tutti molto spaventati, ma ci stiamo tenendo in contatto. Invece uno dei miei fratelli e una delle mie sorelle sono a Khartoum, stanno vivendo davvero un momento orribile. Sono chiusi in casa perché sia gli uomini dell’esercito regolare che quelli della milizia sono per strada. Ma è dura senza acqua ed elettricità, credo che a un certo punto saranno obbligati ad uscire».
Gli scontri, concentrati nella capitale Khartoum, sono iniziati con bombardamenti da parte dell’esercito regolare verso una base militare controllata dall’Rfs. Da lì in poi i combattimenti si sono estesi al palazzo presidenziale e all’aeroporto, di cui entrambi gli eserciti hanno rivendicato il controllo.
Nella capitale da giorni si continuano a sentire spari e forti esplosioni, nonostante l’accordo di un cessate il fuoco da entrambe le parti per permettere lo svolgimento delle attività dei corridoi umanitari. È stata colpita anche la sede dell’ufficio della tv panaraba Al Arabiya e del suo canale di notizie, al-Hadath. Khartoum è rimasta senza luce e acqua e al momento è stato chiuso lo spazio aereo del Sudan. I civili che escono per strada in cerca di cibo e acqua rischiano di diventare vittime del fuoco incrociato.
Il Sudan è un paese molto grande che conta 46 milioni di abitanti ed è un luogo fondamentale da un punto di vista strategico ed economico. Il suo territorio è anche il punto di partenza dei flussi migratori che dall’Africa subsahariana arrivano alla Libia per poi attraversare il Mediterraneo.
Burhan e Degalo si dividono il potere dal 2019, quando un colpo di stato militare ha portato alla destituzione del dittatore Omar al-Bashir dopo 30 anni di governo autocratico. Dopo un breve periodo di transizione democratica con al governo l’ex primo ministro Abdalla Hamdok, nell’ottobre 2021 un nuovo golpe ha portato Burhan a diventare il capo del Consiglio Sovrano del Sudan, organo a partecipazione civile e militare che avrebbe dovuto portare il paese a elezioni democratiche nel 2023. «Per quanto siano sempre stati in competizione per il governo dello stato» – continua Amr – «entrambi però sono stati d’accordo nel fermare la rivoluzione del popolo e deporre al-Bashir. Non hanno mai voluto che il popolo avesse il potere».
Degalo, nominato vicepresidente di Burhan e a capo delle miniere d’oro del Darfur, dal 2017 si è arricchito moltissimo, permettendogli di mantenere una forte autonomia delle sue milizie e di acquistare equipaggiamenti ed armi di alta qualità. Degalo è noto per fare affari poco trasparenti nell’estrazione dell’oro e del suo contrabbando. Diverse fonti lo descrivono legato alla Russia e al gruppo mercenario Wagner.
Il rapporto tra i due era iniziato proprio durante la guerra nella regione del Darfur e fino ad oggi si sono spartiti il potere in Sudan, rimanendo formalmente alleati. Il loro legame ha iniziato a diventare sempre più sottile dopo che nel 2022 il governo di Burhan aveva acconsentito ad un accordo per restituire il potere a un’amministrazione civile. L’accordo prevedeva anche lo scioglimento delle Rapid Support Forces, le milizie di Degalo, che da sempre avevano mantenuto una grossa autonomia dall’esercito. Dopo la dura opposizione del capo delle Rsf al loro scioglimento, i due uomini più potenti del Sudan hanno iniziato a scambiarsi accuse molto dure che hanno portato allo scontro armato.
«Non credo che la colpa di questi attacchi sia davvero del mancato accordo tra i due o della volontà di Degalo di mantenere la sua milizia. La verità è che la promessa della democrazia non sarebbe comunque stata realizzata: entrambi sono criminali, entrambi si sono macchiati di crimini orrendi in Darfur e nessuno dei due crede nella democrazia», continua Amr. «Quando al-Bashir è stato deposto e messo in prigione entrambi avevano l’ambizione di guidare il paese. Dagalo è diventato molto potente con le Rsf, grazie a ingerenze sia russe che degli Emirati. Ha molti soldi, un ottimo esercito. Quindi si stava preparando a governare il paese e sembrava pronto».
A livello internazionale questo scontro sta preoccupando molti, spingendo in primis il capo dell’Unione Africana, Moussa Faki Mahamat, a recarsi in Sudan per cercare di concordare un cessate il fuoco tra le due fazioni. Mentre la Lega Araba ha fissato un’assemblea di emergenza al Cairo, i confinanti Egitto, Sud Sudan e il vicino Kenya si sono offerti come mediatori.
«Credo non ci sia possibilità di instaurare una democrazia con questi due uomini al potere. Sono sicuro però – dice Amr – che anche se non ora ci sarà una nuova rivoluzione, la gente tornerà per strada a lottare per i propri concittadini, a manifestare per un sistema democratico che prima o poi arriverà. Almeno finché il potere non sarà nelle mani giuste: quelle del popolo».