Le tradizionali preghiere, che nel giorno della festa musulmana dell’Eid al-Fitr si levano dalle moschee per celebrare la fine del Ramadan, quest’anno hanno lasciato il posto al fumo denso che si alza all’orizzonte in seguito ai colpi d’arma da fuoco che da quasi una settimana scuotono la capitale del Sudan. In occasione della festività sacra, il primo discorso del generale a capo delle Sudanese Armed Forces, Abdel-Fattah Burhan, che venerdì mattina ha assicurato l’impegno dell’esercito a preservare «la sicurezza e l’unità dello stato nella transizione a un governo civile». Nel frattempo a Khartum la guerra in corso tra le forze armate e le milizie del Rapid Support Forces (RFS) non si è mai arrestata.
Quella che a molti è sembrata un’apparente richiesta di sostegno internazionale arriva dopo due tregue interrotte in soli due giorni, nonostante il tentativo diplomatico delle Nazioni Unite e del Segretario di Stato americano Antony Blinken, che a inizio settimana aveva parlato separatamente con i due generali per sollecitare la sospensione della spirale di violenza da entrambe le parti. Militari e paramilitari si sono accusati a vicenda di aver violato il cessate il fuoco entrato in vigore prima martedì e poi di nuovo mercoledì, finché giovedì le milizie RSF hanno accettato di interrompere i combattimenti per i tre giorni di Eid al-Fitr, così da consentire la costituzione dei corridoi umanitari ed evacuare i civili intrappolati sotto il fuoco incrociato senza più cibo, corrente né rifornimenti. Ma non ci sono segnali di arresto da parte dei militari di Burhan, il quale ha dichiarato esclusi i negoziati con il gruppo paramilitare guidato da Mohamed Hamdan Degalo, affermando che accetterà solo la resa del rivale.
Mentre nella capitale è iniziata la fuga di centinaia di persone nel tentativo di mettersi in salvo, il bilancio delle vittime secondo l’Organizzazione mondiale della sanità delle Nazioni Unite è arrivato a 413 – di cui almeno 9 bambini, riporta il Fondo dell’Onu per l’infanzia – e salgono a oltre 3000 i feriti.
«La guerra urbana è il peggior tipo di conflitto e né i militari SAF che le milizie RSF sono addestrati a questo tipo di combattimenti». Il ricercatore per la politica e i diritti umani in Sudan Eric Revees sottolinea i crimini di guerra perpetrati da entrambe le fazioni: «Le forze armate sudanesi hanno commesso innumerevoli atrocità e molti dei loro attacchi aerei equivalgono a crimini di guerra, così come l’uso indiscriminato di ordigni pesanti in aree ad alta concentrazione di abitanti e il posizionamento delle truppe nelle zone residenziali». Ma all’innegabile violazione dei diritti umani e del diritto internazionale da parte di quella che è considerata «un’istituzione di lunga data all’origine di molte tirannie», si oppone il comportamento anche peggiore delle milizie RSF, accusate di saccheggiare e uccidere deliberatamente di civili: «La popolazione odia l’esercito sudanese ma odia anche di più le forze di supporto rapido, di cui vorrebbe assolutamente liberarsi». Le RSF sono un insieme di miliziani – circa 100.000 uomini – non addestrati militarmente, pesantemente armati e guidati da Hamdan Degalo, l’uomo che ha commesso il genocidio in Darfur, nominato a capo delle RSF nel 2013 e originario del Chad. «A Khartoum, dove le élite arabe della Valle del Nilo hanno sempre governato, Hamdan e le sue milizie sono considerati estranei, il che spiega gran parte degli abusi a cui abbiamo assistito in questi giorni».
Nonostante le forze di supporto rapido siano ancora in grado di infliggere danni, a causa della sua disorganizzazione il gruppo paramilitare ha perso il controllo di diversi territori, senza sapere più dove posizionarsi. Così l’esercito sudanese, provvisto di elicotteri da combattimento e aerei militari avanzati, ha la chiara sensazione di poter prevalere, controllando tutte le principali città anche in Darfur, come El Fasher, Nyala, El Geneina. «È il motivo per cui al-Burhan non accetta alcuna tregua: darebbe solo la possibilità alle RSF di riorganizzarsi, rafforzarsi e ristabilire il comando».
Entrambi i generali aspirano al potere e alla ricchezza e sono profondamente legati dalla dichiarazione costituzionale dell’agosto 2019, «quando è stato commesso un terribile errore nel lasciare a entrambi gli uomini, con i loro eserciti, il compito di governare il Sudan mentre il primo ministro Abdalla Hamdok era solo un prestanome. Quello che stiamo vedendo ora è il frutto di questa disastrosa dichiarazione costituzionale che non ha fatto nulla per controllare il governo militare in Sudan».
Nel 2019 militari e paramilitari avevano collaborato per deporre il regime autocratico del dittatore Omar Hasan Ahmad al-Bashir. Nonostante fossero in grado di lavorare insieme, i loro interessi sono sempre stati divergenti e negli ultimi mesi lo sono diventati ancora di più. A creare maggiore attrito la questione dell’integrazione delle forze di supporto rapido nell’esercito nazionale, che Degalo voleva rimanessero indipendenti per dieci anni contro i due voluti da al-Burhan. Su questo si sarebbe dovuto firmare un accordo il 1 aprile, quando invece le tensioni sono sfociate nei combattimenti che sabato mattina hanno colpito una base militare a sud di Khartum per poi estendersi ad altre aree, dalla costa sul Mar Rosso ai confini con Etiopia ed Eritrea.
Secondo Eric Revees, al momento il rischio più grande è rappresentato da un ulteriore coinvolgimento regionale: «Oggi è stato riferito che le forze etiopi hanno tentato di entrare nel Sudan orientale, dove sono state accolte e duramente battute dalle SRF. Anche al confine con il Darfur è presente l’esercito del Chad, impegnato nei pattugliamenti per impedire alle forze di supporto rapido di entrare per raggrupparsi e ricostituirsi». Anche se non c’è alcuna possibilità di un coinvolgimento militare degli Stati Uniti, che stanno solo radunando una forza a Gibuti per evacuare il personale diplomatico, «l’intervento di Blinken mira a mantenere il controllo dell’oro proveniente principalmente dalla miniera di Jebel Batur e dal Darfur».
In un paese la cui economia sta implodendo, con un’inflazione del 300% all’anno, i prezzi dei generi alimentari incredibilmente alti e livelli di malnutrizione estremamente elevati, sovrapporre questo tipo di guerra all’ostruzione dell’accesso umanitario «è la ricetta per una catastrofe assoluta».
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