Esclusiva

Febbraio 9 2024
La migrazione al cinema tra “Green Border” e “Io Capitano”

Il successo di “Io capitano” e “Green Border” ha fatto tornare alla luce la migrazione come soggetto cinematografico

Sono cinque le strade che si possono percorrere per entrare illegalmente nell’Unione Europea. A ovest il confine tra Marocco e Spagna passando attraverso lo stretto di Gibilterra. Poi ci sono le rotte mediterranee che hanno come punti di arrivo Italia e Grecia e sono percorse prevalentemente da migranti provenienti dal centro e dal nord dell’Africa. A est le strade sono due: la rotta balcanica e il confine polacco bielorusso. Quest’ultimo è il soggetto di Green Border il film della regista polacca Annieskza Holland, uscito nelle sale italiane giovedì otto febbraio.

La regista, che ha alle spalle una lunga carriera nel cinema sociale, segue le vite dei profughi che partono per la Bielorussia da Iraq e Siria tratti in inganno dalla promessa dei voli di Stato per poi venire abbandonati nel cuore della foresta Bialowieza, la più antica d’Europa,  attraversata da filo spinato e da un muro lungo centoottantasei chilometri e alto sei metri che separa il territorio polacco da quello bielorusso. Con un film che ricorda le grandi opere di Rossellini, girato interamente in bianco e nero con attori ex profughi, Holland denuncia gli abusi della polizia di frontiera e l’indifferenza dell’Europa di fronte alla tragedia dei profughi bloccati tra il freddo e le sterpaglie della foresta. 

Green Border è stato tanto applaudito dalla critica quanto odiata dal suo governo che infatti ha deciso di non proporlo come film rappresentante della Polonia agli Oscar preferendogli la pellicola di animazione The Peasants. Un’accoglienza diversa da quella ricevuta da Matteo Garrone, autore nello stesso anno di un film, Io capitano, che mette al centro della narrazione la rotta dei migranti, questa volta raccontando il viaggio dalla Nigeria alle coste della Libia, e poi la traversata nel Mediteraneo. Il film è in lizza per l’Oscar al miglior film internazionale. 

Il successo di queste pellicole, secondo Alessandro Jedlowski, ricercatore ed esperto di cinema africano, è il risultato di un lavoro che si è sviluppato nell’arco degli ultimi trent’anni in Europa spaziando tra il cinema del reale, quello d’autore – uno dei primi in Italia è stato Michele Placido con Pummarò – fino a quello commerciale come con Torino Boys dei Manetti Bros. 

La migrazione al cinema

In realtà la migrazione è un soggetto da sempre rappresentato al cinema. Ne è solo cambiata la direzione: «fino agli anni ‘90 in Italia quando si parlava di migrazione ci si riferiva più a quella esterna, con gli italiani che si trasferivano in Australia o negli Stati Uniti. Poi c’è stata un’inversione di rotta e la penisola ha cominciato ad essere un luogo di accoglienza». Lo stesso vale per il cinema europeo, il cinema del secolo scorso ha sempre rappresentato la migrazione tra Stati interni al continente. La tradizione cinematografica però non si limita ai confini occidentali, dice Jedlowski,: «Ce n’è anche una africana con film come Touki Bouki di Djibril Diop Mambéty o la Noir De di Ousmane Sembène». 

«Spesso- osserva Jedlowski- c’è una tendenza nel cinema europeo a fare come se il fenomeno migratorio fosse rappresentato solo dal cinema occidentale. Questo costituisce un problema quando si sceglie di adottare il punto di vista africano per raccontare la migrazione facendo un atto di ventriloquismo che porta spesso a una rappresentazione esotizzante e pietistica dei migranti. Un esempio è uno degli ultimi film di Vittorio de Seta Lettere dal Sahara che racconta la storia di un giovane senegalese che arriva in Italia, criticato per aver avuto uno sguardo pietistico».

Nel mondo occidentale si ignora la prolifica produzione cinematografica di altri Stati, e gli stessi autori afrodiscendenti- che tentano di farsi strada- sono messi ai margini. Un film come la Pirogue di Moussa Touré, dopo aver girato molto tra i festival- anche a Cannes- è caduto nel dimenticatoio. 

Per questo film come Io capitano e Green Border sono importanti e conclude Jedlowski: «se Garrone vincesse l’Oscar sarebbe una bella cosa per via della sua vocazione pedagogica». 

Per saperne di più: https://zetaluiss.it/2022/05/01/migranti-confine-polonia-bielorussia/