Ben Scott non aveva nemmeno trent’anni quando venne chiamato per collaborare alla campagna elettorale di Barack Obama. Grande esperto di strategie comunicative, è stato uno dei primi a capire l’importanza di internet e dell’informazione digitale per fini politici: «L’uso del web ha fatto la differenza nella vittoria dell’ex Presidente nel 2008: con una tecnica mirata siamo riusciti a guidare il consenso tra i giovani e a trasformarli in elettori», afferma durante il suo seminario alla Scuola di Giornalismo della Luiss.
Anche la seconda candidata alle primarie democratiche del 2008, Hillary Clinton, deve averlo intuito. Per questo, due anni dopo, in qualità di Segretario di Stato dell’amministrazione Obama, decise di affidarsi a lui come specialista di telecomunicazioni per le politiche estere.
Ben Scott, che non si riteneva all’altezza, era sul punto di rifiutare, ma la democratica lo convinse con una frase che ricorderà per sempre: «Vedi questo palazzo? Tutti qui sanno di politica, ma nessuno capisce un tubo di tecnologia».
Così, l’esperto diventa un punto di riferimento per il Dipartimento di Stato negli anni di Wikileaks, della Primavera Araba e dell’avvento dei social network.
Appassionato di hi-tech, ma non per questo tech fanatic, Scott incentra il suo seminario sulle grandi minacce alla democrazia. Per lui, i social media devono essere ripensati dalle fondamenta. Allo stato attuale rappresentano un ostacolo all’informazione di qualità: «Una volta, in edicola, era sufficiente guardare la copertina per capire la serietà di un quotidiano: più piccolo il font, più autorevole la testata. Lo stesso valeva per i contenuti televisivi: la voce del conduttore, il vocabolario usato e le scelte grafiche comunicavano il livello di affidabilità della trasmissione».
Con Facebook, Threads o Instagram è un’altra storia: «Tutto sembra uguale: le piattaforme sono progettate con un design che crea un immediato senso di affidabilità. Quando scrolliamo il feed ci fidiamo di ciò che leggiamo senza verificare le fonti».
Scott denuncia la significativa frammentazione della realtà nell’era digitale: «Ognuno di noi ha una diversa percezione del mondo, basata su ciò che visualizziamo sui nostri schermi. Ciò che ci viene mostrato è dettato da un algoritmo personalizzato, che ci sorveglia e sa tutto di noi: dove viviamo, che lavoro facciamo, chi sono i nostri amici e in che palestra andiamo. Ma, soprattutto, cosa amiamo e cosa vorremmo comprare».
Facebook e gli altri social riescono a farci stare incollati allo schermo per ore. «Guadagnano vendendo il nostro tempo e la nostra attenzione agli inserzionisti: il vero prodotto siamo noi».
Non è un caso che il modello di business di cinque delle aziende con più fatturato al mondo sia basato sulla compravendita dei dati personali e sulla “sorveglianza” dei nostri gusti e interessi. I ricavi annuali di Microsoft, Apple, Alphabet (Google), Amazon, Meta valgono più del PIL di interi Paesi, come Ecuador o Croazia.
A tutte queste grandi compagnie non interessa l’attendibilità delle informazioni pubblicate. È qui che si genera quello che Scott definisce “caos epistemico”: non esiste più una sola realtà, una sola verità.
Gli utenti si trovano segregati all’interno di una filter bubble. I contenuti proposti convalidano i pregiudizi e le convinzioni personali: «Ognuno vuole sentirsi dire: “Hai ragione, sei dalla parte del giusto”. I meccanismi di rinforzo finiscono per normalizzare posizioni radicali, rappresentando una minaccia per l’ordine sociale».
Scott cita come esempio l’assalto a Capitol Hill negli Stati Uniti da parte dei sostenitori dell’ex presidente Donald Trump, avvenuto il 6 gennaio 2021: «I manifestanti credevano davvero agli slogan che gridavano». Al punto da rimetterci la vita o finire in galera. Quel giorno ci furono 9 morti e 1300 arresti. «La maggior parte di loro era composta da borghesi di mezza età con un reddito medio-alto, a dimostrazione di come la radicalizzazione mieta vittime anche in fasce della popolazione con un buon livello di istruzione».
Non è un fenomeno limitato agli Stati Uniti. La diffusione di fake news da anni infuoca proteste in tutto il mondo: «Durante la campagna di vaccinazione per il Covid, centinaia di camion in Canada hanno bloccato le strade della capitale. Manifestazioni simili sono avvenute anche in Europa».
La disinformazione minaccia le democrazie e, nel mentre, le compagnie hi-tech fanno poco o nulla per contrastarla. «C’è bisogno di nuove leggi: i social media vanno ristrutturati». L’altro passo necessario, secondo Ben Scott, è un cambio radicale di mentalità e di approccio al mercato: «Sono tempi difficili, ma mi considero ottimista. Un futuro diverso è possibile: basta volerlo».