Il prato del campus, di solito popolato da migliaia di ragazzi sdraiati a prendere il sole o seduti a studiare in compagnia, è deserto. Si possono notare alcuni buchi sull’erba, lì dove erano conficcati i bastoni per fissare le tende. Le aule sono vuote, e resteranno così perché fino a fine anno le lezioni saranno tutte online. L’unica presenza massiccia è quella della polizia, che passeggia fra i viali per assicurarsi che nessuno faccia irruzione. È la fotografia degli ultimi giorni alla Columbia University, situata nel cuore di Manhattan, dopo le proteste dei suoi alunni contro la guerra nella Striscia di Gaza e il sostegno del governo statunitense ad Israele.
Delle manifestazioni che hanno coinvolto sempre più persone: erano meno di cento a metà aprile e sono diventate più di cinquecento, ogni giorno, a fine mese. È stata una sorpresa anche per gli organizzatori stessi, che dando vita ad eventi e incontri hanno attirato i colleghi e anche i professori per leggere storie, vedere film e documentari e persino cantare. È nata una piccola comunità. Fino alla notte di martedì 30 aprile, quando la polizia ha fatto sgomberare il campus, lasciandolo desolato.
Oltre agli agenti, che resteranno a presidiare almeno fino alla fine di maggio, l’accesso è stato consentito a un team di alunni considerati “lavoratori essenziali”, fra cui alcuni giovani giornalisti di tutto il mondo. C’è anche l’italiana Natasha Caragnano fra loro, ex studentessa del Master di Giornalismo della Luiss e ora alla Columbia, che si occupa di raccontare dall’interno quello che sta succedendo. «L’ingresso della polizia ha creato un clima di tensione, mentre prima non era così perché i manifestanti sono stati aperti a parlare, a discutere e a raccontarsi – ci dice al telefono, proprio prima di andare all’università per dare nuovi aggiornamenti – vedere la polizia all’interno del campus è davvero strano. L’aria in questi giorni non è bella, è tesa, silenziosa, fredda. Non è mai stato così, il campus della Columbia è vivo di solito. Vederlo così è molto triste».
Non bastano quei pochi ragazzi che sono riusciti a rimanere al suo interno perché alloggiano nei dormitori. Molti di loro, provati dal fatto di dover rimanere rinchiusi e senza il loro gruppo di amici, hanno deciso di fare le valigie e tornare a casa, per seguire le lezioni da un computer. Con l’assenza di risate e conversazioni fra ragazzi, il silenzio è spezzato soltanto dagli addetti ai lavori che stanno montando gli spalti e le tende per le lauree di fine corso.
I disagi che sta attraversando l’università del quartiere di Morningside Heights si stanno spostando anche in altri atenei. Le barricate degli studenti filo-palestinesi hanno messo in difficoltà le forza armate anche a Los Angeles, alla University of California, e a Parigi, alla Sciences Po. Ma il clima di maggiore tensione resta nella Grande Mela, dove sono stati coinvolti studenti della New York University e della City University of New York. La paura si percepisce anche durante le chiamate, con i ragazzi che sono rimasti sorpresi dallo stato di agitazione raggiunto alla Columbia e preferiscono non commentare le reazioni della propria università.
Dalla Nyu, chiedendo di parlare in anonimo, uno studente americano conferma che le proteste sono arrivate anche nel loro campus al Greenwich Village. «Non mi sento al sicuro – racconta – e siamo in una situazione di disagio anche perché vengono cancellate le lezioni o annullate le lauree. Non credo che disturbare le attività quotidiane degli alunni sia l’obiettivo dei manifestanti. Non so quale sia la soluzione, ma affollarsi nelle istituzioni per cui le famiglie lavorano duramente per far studiare i propri figli non è ciò che nessuno si merita. Chi lavora nelle università non dovrebbe essere attaccato per aver intrapreso azioni per fermare le proteste nei loro campus in nome della sicurezza degli studenti».
Al di fuori di Manhattan c’è un po’ più di tranquillità. Fabio, italiano di 22 anni che frequenta la Cuny College of Staten Island, dice di «sentirsi al sicuro», ma che «le proteste hanno sicuramente aumentato le tensioni e sollevato preoccupazioni su potenziali disordini. È importante che venga garantita la sicurezza e il benessere di tutti gli studenti e si faciliti un dialogo costruttivo». Pensandoci, però, qualche differenza nelle ultime settimane c’è stata anche nel suo ateneo a Staten Island: «Ho notato che diversi compagni di classe non si sono presentati alle ultime lezioni, il che può indicare che si sentono a disagio o che hanno scelto di partecipare alle proteste in altri modi». Alla fine, comunque, sarà questione di tempo per l’espansione delle proteste: «Sento che la voce del movimento si sta diffondendo in città, c’è un forte senso di solidarietà tra gli studenti della Cuny e non sarebbe sorprendente vedere azioni o manifestazioni simili a sostegno della Palestina da noi».
Non si sente al sicuro neanche una studentessa russa della stessa università. «Sono consapevole che le proteste in corso hanno un messaggio forte, ma non mi fanno stare tranquilla». Una situazione che preoccupa anche i suoi colleghi: «Molti se ne stanno andando, anche perché in città c’è sempre meno sicurezza, nelle metro e adesso anche nei nostri dormitori».