Ce l’ha fatta l’Atalanta. Ha vinto per 3-0 la finale di Europa League a Dublino contro il Bayer Leverkusen, imbattuto in stagione e all’apparenza imbattibile. Ce l’ha fatta Gian Piero Gasperini, che ha usato il pressing alto, la stessa arma dei suoi rivali.
«I sistemi di gioco che usa, 3-4-2-1, 3-4-3, 3-4-1-2 ecc., esistevano prima di lui. La sua interpretazione no», spiega Renzo Ulivieri, direttore della Scuola Allenatori della FIGC. «Pensiamo ad esempio alla sua marcatura a uomo, recuperata dal passato della nostra scuola in un momento in cui sembrava non ci fosse che la zona». La sintesi fra modelli differenti sembra essere all’origine del Gasperini-pensiero.
Il titolo continentale libera la squadra bergamasca dal soprannome di “regina delle provinciali” – già obsoleto da qualche anno in realtà – e lui dall’etichetta di “bravo sì, ma che non vince trofei”. Nel postpartita di Sky Sport, Fabio Caressa si è sentito ancora più in diritto di ribadire un concetto espresso qualche mese fa: «Insieme a Guardiola, sei il più influente in Europa negli ultimi anni».
L’allenatore piemontese, dopo la finale, ha dichiarato di aver studiato molto il calcio olandese negli anni Novanta: «Erano gli unici a giocare con la difesa a tre, in Italia dicevano che così non si vinceva». Lo dice mentre a Bergamo scendono in strada anche i trattori, per festeggiare un traguardo che nel 2016, quando arrivò sulla panchina nerazzurra, sembrava irraggiungibile. Ma il Gasp non ha vinto solo l’Europa League, e come ha detto subito dopo la partita: «Non credo di essere migliore di com’ero oggi pomeriggio».
Ormai siamo abituati ad una massiccia presenza di suoi “discepoli” in Serie A: Juric del Torino, Palladino del Monza, Tudor della Lazio, Thiago Motta del Bologna, Gilardino del Genoa. Tutti allenatori riconducibili a quella che, su l’Ultimo Uomo, Emanuele Mongiardo ha chiamato Divina Scuola di Grugliasco. Difficile trovare una simile egemonia culturale nella Storia del nostro campionato.
È innegabile che il suo metodo sia un modello, ma resta da capire quanto e a quali livelli. «Sia Guardiola che Gasperini sono partiti dal calcio olandese», continua Ulivieri, «la differenza è che uno arriva a concludere con tanti passaggi, l’altro con tre». Una differenza che li pone a due estremi: «Sono loro due i modelli nell’impostazione dell’azione, poi in mezzo ci sono tante sfumature».
«Fortunatamente in Italia, però, non cerchiamo di far uscire allenatori “quadrati”». Il metodo della Scuola di Coverciano non è quello di dare un’impostazione specifica, ma una cultura calcistica che permetta ai giovani tecnici di tirare fuori la loro personalità e di sfruttare il meglio dai giocatori che hanno a disposizione. «Insegniamo Gasperini come insegniamo Sarri e tutti gli altri modi di interpretare il gioco. Spesso chi arriva da noi è rigido e parla del “mio calcio”. No, il tuo calcio deve essere quello che nella pratica è il migliore per risultati, spettacolo, miglioramento dei singoli».
È indubbio, però, che il gioco gasperiniano si stia diffondendo sempre di più. Ora che ha perso lo stigma di “non vincente” potrebbe farlo ancora di più. Un’influenza che, però, secondo Renzo Ulivieri è difficile che possa imporsi anche nelle nazionali italiane: «Un commissario tecnico non ha molto tempo per abituare i giocatori a idee come quelle di Gasperini. Servono anche caratteristiche, soprattutto fisiche, molto particolari per fare il pressing che vuole lui e poi correre all’indietro quando serve». Insomma, per fare quello che ha fatto l’Atalanta mercoledì.