L’autobiogrammatica di Tommaso Giartosio traccia il modo in cui l’autore sente nel profondo la lingua, perché raccontarla significa narrare la propria vita lungo le tappe della famiglia – con la guerra di dizionari tra genitori e figli – l’amore, l’amicizia e i viaggi. L’autobiografia è un percorso introspettivo alla ricerca dell’identità. Il linguaggio abita la vita dell’io narrante, giacché le parole usate e ascoltate dai bambini plasmano in modo indelebile la nostra esistenza. Frasi e articoli occupano, «ognuno nel proprio astuccio trasparente», l’armadio di ognuno. Una lingua propria è il punto di vista con cui frequentare il mondo, varia per ogni identità, in quanto univoca.
L’autore riflette sui nomi di uomini e donne che lo hanno segnato, riconoscendo che non sempre queste parole hanno per lui «un proprio cuore», ma al contempo che possono essere amate come se fossero una casa, un’ora del giorno o un’opera d’arte. Dalla nascita si verifica una tensione ininterrotta tra la lingua privata, che è l’apparenza della libertà, e quella collettiva. Ognuno cresce dentro il silenzio e i termini elaborati, come quelli del lessico familiare che compongono la propria storia e segnano talvolta quella altrui. Persino una comunità continua ad esistere fino a quando durano le sue parole.
Giartosio risale all’ego personale nel microcosmo di giochi linguistici che è ogni nucleo familiare, a prescindere dalla condizione socioeconomica. Il linguaggio riguarda tutti, è nell’anima e rinasce di continuo. Seppur astratto, crea l’io incorporato nell’individuo, che ha più bisogno di riscoprire le parole che è stato rispetto agli avvenimenti vissuti. L’autore riflette sulla coppia “battagliera” lingua-linguaggio, ammettendo di preferire il secondo, e che una lingua raccontata diventa in automatico linguaggio così come una persona descritta si evolve in un personaggio. Sono i suoni e i significati a dar vita ad un’intera galassia vivibile perché «siamo guidati dagli ultrasuoni che noi stessi emettiamo».
La parola ci stupisce quando la ripensiamo o pronunciamo, non si dissolve. Scompare per poi riapparire e passarci accanto, è una foglia caduta e trascinata dalla corrente, è ciò che si contrappone al silenzio. Grazie agli alfabeti è possibile edificare una personale via nella lingua universale perché ognuno ha espressioni che adora ripetere, vocaboli che ritiene fonte di irritazione o nomi che non lo attraggono affatto.
La famiglia di Giartosio, appartenente all’alta borghesia del Nord Italia, è dipinta con cura. Il padre, colto e silenzioso ufficiale della Marina militare, e la madre – viva nelle sue parole anche dopo la morte – sono esaminati in base al linguaggio generato. La semplice espressione “Ola” è il saluto caratteristico gridato dal primo rientrando da lavoro «dopo aver varcato la soglia con un piccolo passo di danza» e prima di chiedere al figlio notizie sull’andamento scolastico. È la prima parola donata in casa, ma raccolta da nessuno, simbolo del linguaggio infantile ereditato, una manifestazione d’amore incompresa. Molti sono i ricordi legati alla figura paterna: da un taccuino regalato per disegni e poesie all’appellativo “stella” con cui si rivolge al figlio. L’autore apre le porte della sua vita «fidandosi del lettore», e si mette a nudo con un linguaggio forbito, molte descrizioni dettagliate, come quella sull’aspetto fisico e l’abbigliamento del padre. Padroneggia l’alternanza di episodi felici con altri drammatici come l’Alzheimer della madre. Il volume è ricco di episodi passati inseriti in una riflessione del presente legata all’analisi e all’interpretazione delle “sue” parole.