Il mistero e le ricerche
Una ginnasta, poco più che bambina, volteggia sulla pedana, tra gli applausi del pubblico. Così inizia la docuserie Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio, rilasciata da Netflix il 16 luglio. La ragazzina in quel video sgranato, però, non è mai diventata una donna. È Yara Gambirasio, la tredicenne di Brembate di Sopra, in provincia di Bergamo, scomparsa la sera del 26 novembre 2010 e trovata senza vita tre mesi dopo. Dal centro sportivo del paese, da lei frequentato quasi ogni giorno e a soli ottocento metri dalla sua abitazione, non fece mai ritorno. Un ultimo messaggio inviato all’amica Martina alle 18:50 e poi il nulla: nessun fotogramma ha restituito i suoi ultimi passi in quella fredda serata di novembre, che sembrava averla inghiottita nel buio. La denuncia da parte dei genitori e le prime ricerche non danno alcun esito. «In quei giorni si percepiva un qualcosa di misterioso, una paura strisciante e continua. La scomparsa di Yara Gambirasio rappresentava l’incubo di ogni famiglia» dichiara Armando Di Landro, giornalista di BergamoNews. La serie, infatti, si avvale delle testimonianze di chi ha da subito seguito la vicenda: i giornalisti Vittorio Attanà, Enrico Fedocci, Paola Abrate, il comandante provinciale dei carabinieri Roberto Tortorella, il medico legale che svolse l’autopsia Cristina Cattaneo, gli avvocati della difesa Claudio Salvagni e Paolo Camporini e molti altri.
Il documentario, infatti, si costruisce sull’alternanza delle voci agli atti delle indagini, sulle immagini di repertorio e sulle intercettazioni, fino alle interviste odierne. Si cerca di tornare all’origine delle investigazioni, spesso minate da mitomani e false segnalazioni. Anche il supertestimone, Enrico Tironi, un giovane vicino di casa, venne dichiarato non attendibile. Il primo a finire per errore nel registro degli indagati, invece, è stato Mohammed Fikri, operaio marocchino incolpato a causa di una sua intercettazione tradotta male.
Il ritrovamento
Leggins neri, maglietta Freddy, felpa di Hello Kitty e un giubbino nero: così era vestita il giorno della sua sparizione e allo stesso modo è stata ritrovata da un passante il 26 febbraio 2011 in un campo a Chignolo d’Isola, a circa dieci chilometri da Brembate di Sopra. Il corpicino è irriconoscibile, in stato avanzato di decomposizione, viene identificato da piccoli dettagli, come un portachiavi. «Il corpo non ha nulla di Yara. Forse è meglio così», ha detto il papà Fulvio.
Gli slip abbassati e lacerati da un lato e il reggiseno slacciato fanno pensare ad un’aggressione a sfondo sessuale culminata in omicidio. Secondo Cattaneo, il trauma cranico e le ferite da taglio non avrebbero portato al decesso. La vittima è stata lasciata morire lì, di freddo e di stenti. L’ultimo atto di vita sarebbe stato stringere, nelle sue mani, l’erba di quel prato.
Le indagini
Una svolta arriva quando su una porzione di intimo e di vestiti viene ritrovato un DNA maschile sconosciuto, la firma dell’assassino, ribattezzato “Ignoto 1”. La magistratura mette in atto una delle campagne più grandi di prelievi di DNA del nostro Paese, con più di ventimila tamponi salivari eseguiti sugli abitanti della zona. Dopo un lungo iter, viene individuata la madre del sospettato: Ester Azzuffi. Il padre, invece, è Giuseppe Benedetto Guerinoni, un autista morto da dodici anni, il cui cadavere è stato riesumato per maggiori rilievi. L’indiziato è, dunque, il figlio illegittimo di Guerinoni, nato dalla sua relazione clandestina con Ester, che ha sempre negato l’evidenza. Ignoto 1 acquista così un volto e un nome: Massimo Bossetti. Muratore incensurato di Mapello, sposato e con tre figli, viene arrestato il 16 giugno 2014 e condannato definitivamente all’ergastolo il 12 ottobre 2018 per omicidio, nonostante lui si sia sempre professato innocente. La moglie, Marita Comi, che ha deciso di credere al marito e di restare al suo fianco, ha scelto di parlare per la prima volta ai microfoni di Netflix.
La figura di Massimo Bossetti nella serie
Dalla seconda puntata un’ombra si aggira nei corridoi: «È difficile parlare. È da tanto tempo che aspetto questo momento». È Massimo Bossetti a pronunciare queste parole, seduto al centro della stanza su una poltrona di pelle marrone. Come gli altri intervistati vengono ripresi nel proprio spazio, in casa o nel luogo di lavoro, così anche lui si racconta dal carcere, nel quale è detenuto da dieci anni.
Il documentario è stato realizzato da chi crede nella sua innocenza e l’intento è chiaro: “umanizzare” e riabilitare la sua immagine attraverso le parole e i ricordi come figlio, genitore e marito, perché «creare il mostro è stato un passaggio fondamentale di quest’inchiesta per l’accusa» secondo il suo avvocato difensore. Lo scopo non è offrire allo spettatore una precisa verità alternativa a quella giudiziaria, ma instillare dubbi. Nonostante la prova del DNA sia schiacciante (con una compatibilità del 99,99999987% tra il DNA di Bossetti e quello di Ignoto 1) diversi sono ancora i punti bui della vicenda e la quinta ed ultima puntata cerca di giocare su quelli, per decostruire gli elementi a suo carico. Si sposta l’attenzione su errori di valutazione e su altri indiziati: la famiglia Locatelli dell’azienda edile Lopav, per cui aveva lavorato Fulvio, l’ex insegnante di ginnastica Silvia Brena, il cui sangue era presente sul polsino del giubbino di Yara o il custode della palestra Valter Brembilla.
Bossetti ha sempre richiesto il riesame del DNA, istanza accettata nel 2019, ma che non si è mai concretizzata. I cinquantaquattro ed ultimi campioni di materiale genetico sono andati di fatto distrutti, dopo che il pubblico ministero Letizia Ruggeri, che da subito ha assunto l’incarico del caso, ha autorizzato il loro spostamento dall’Ospedale San Raffaele di Milano al tribunale di Bergamo, che non possedeva le celle frigorifere adatte alla loro conservazione. Per questo il pm è tutt’ora indagata per frode processuale e presunto depistaggio. A quattordici anni di distanza dall’omicidio, tante sono ancora le dinamiche da chiarire. L’arma del delitto non è stata mai recuperata e c’è chi, come l’investigatore privato della difesa Ezio Denti, crede che la ragazza non sia mai uscita viva da quella palestra.
Poche ore dopo la pubblicazione sulla piattaforma streaming, la serie tv ha diviso gli spettatori, che hanno inondato i social di commenti, tra innocentisti e colpevolisti. Di certo, in questo fatto di cronaca, l’opinione pubblica è sempre stata il primo giudice, oltre ogni ragionevole dubbio.
«È difficile quando ti piomba addosso una parola così pesante: ergastolo», conclude Bossetti mentre le lacrime gli rigano il viso. Da parte sua, una sola parola, fino alla fine: «Innocente». Mantiene lo sguardo fisso in camera, prima di tornare nell’ombra della sua cella.