È San Valentino e la voglia di romanticismo pervade l’aria come una di quelle essenze per ambiente che a lungo andare nauseano con i loro effluvi dolciastri. Dal palco dell’Ariston alle vetrine virtuali dei social network, è tutto un parlare d’amore. Se bene, male o per polemizzare, poco importa. Ma se la realtà (o le canzoni di Sanremo) non soddisfano le vostre aspettative, potete sempre guardare un k-drama, cioè una serie tv coreana.
Che preferiate le relazioni tossiche, gli amori impossibili o proibiti, i fidanzamenti finti, le dinamiche friends-lovers o enemies-lovers, eccovi serviti. Ma non è finita qui, perché potreste ritrovarvi a vivere avventure nei luoghi più disparati, dalle stazioni spaziali all’isola di Jeju, e viaggiare avanti e indietro nel tempo, dall’epoca Goryeo, (936 – 1392 d.C.) ad un futuro cupo e distopico. A rendere, però, le serie coreane una droga da cui molti spettatori non riescono a disintossicarsi sono le storie ricche di colpi di scena, le performance di attori e attrici dalla pelle luminosa e i tratti chirurgicamente perfetti, e una certa coreanità del punto di vista, che ha permesso a questi prodotti di scalare le classifiche delle maggiori piattaforme di streaming.
Tanto per capire l’entità del fenomeno, nel 2024 più dell’80% degli utenti di Netflix, 282,7 milioni in tutto il mondo secondo gli ultimi dati, ha guardato contenuti prodotti dalla Corea del Sud. Ad esempio, Queen of Tears ha raggiunto il terzo posto nella classifica degli show più visti dell’anno scorso con più di 682 milioni di ore di visione. Un risultato notevole per un Paese di poco più di 51 milioni di abitanti che negli ultimi quindici anni ha trasformato l’industria dell’intrattenimento, k-drama e k-pop, in un formidabile soft power.
Come già accennato, i coreani raccontano le storie d’amore in un modo diverso da quello occidentale, non solo per l’assenza di scene esplicite di sesso, ma anche per la presenza di temi e situazioni ricorrenti e talvolta stereotipate che permettono a spettatori come noi di conoscere, anche se di riflesso, la cultura, la società e il modo di pensare dei coreani.
Uno di questi è l’amore che affonda le proprie radici nell’infanzia. In tantissimi k-drama l’incontro o l’amicizia tra due bambini si trasforma (inspiegabilmente!) in un sentimento romantico molti anni dopo, anche quando i due non si sono frequentati. Un esempio sono le storie raccontate in Centinaia di milioni di stelle dal cielo(2018) con Jung So-min e Seo In-guk ma anche nel più recente Past Lives, film candidato agli Oscar del 2024.
«Il destino è un tema estremamente caro ai coreani, che amano gli eroi destinati a compiere grandi imprese, così come gli amori che troveranno la strada per sbocciare sempre grazie al destino» spiega Althea Volpe, professoressa di lingua e cultura coreana all’Università La Sapienza di Roma. «Questo concetto può essere trovato in numerose storie e, diciamolo, rende tutto più romantico. In una società dedita alla performance, in cui è necessario portare a termine ogni obiettivo con rapidità ed efficienza, il filo del destino sembra quasi essere una corda a cui aggrapparsi per non perdere se stessi e il proprio contatto con la realtà».
Altro tema molto sfruttato è quello del camuffamento del personaggio femminile, che finge di essere un uomo per raggiungere i propri obiettivi, come avviene nel famosissimo The First Shop of Coffee Prince (2007): «L’amore per questo espediente narrativo affonda le radici nella storia della Corea. Nel periodo Joseon (1392-1897) le donne videro limitare il loro ruolo nella società a causa del Confucianesimo e Neoconfucianesimo che le poneva in una posizione di inferiorità rispetto agli uomini» racconta Volpe. «Si creò dunque nella letteratura un troupe narrativo per cui le donne, per raggiungere i loro obiettivi e ottenere la libertà individuale, dovevano camuffarsi da uomini».
Popolare come in Occidente, non può mancare la storia rivisitata di Cenerentola. Guardando serie di qualche anno fa come l’osannata Boys over flowers, tratto da un manga giapponese, colpisce la crudeltà e la freddezza delle figure maschili, che esprimono un amore tossico verso ragazze povere e spesso descritte come poco capaci a scuola, a cui si aggiungono l’insensibilità di genitori-tiranni che considerano i propri figli come una proprietà e un’esaltazione della ricchezza e del privilegio.
Ultimamente, però, c’è stato un cambio di passo: «Anche in Corea del Sud si è aperto un dibattito sulla mascolinità tossica, sul modello patriarcale e sul ruolo autoritario dei genitori, temi che sono stati affrontati sempre più spesso nei media e nella società» continua la professoressa. «Negli ultimi anni, la consapevolezza su questi temi è cresciuta, spinta da movimenti femministi e da una nuova generazione che rifiuta le rigide gerarchie imposte dalla tradizione confuciana. Le produzioni televisive e cinematografiche hanno iniziato dunque a rappresentare uomini più vulnerabili ed emotivamente maturi, abbandonando lo stereotipo del protagonista freddo e sprezzante».
Strano ma vero, molti degli attori e delle attrici che hanno raggiunto la fama grazie a famosissimi k-drama romantici non hanno mai potuto vivere in libertà le loro storie d’amore per preservare la loro reputazione: «I fan coreani sviluppano un eccessivo attaccamento nei confronti delle celebrità a cui tengono, che sfocia in una limitazione della loro sfera privata. Di conseguenza, qualsiasi azione che non rientri nel lavoro, nell’impegno verso i fan o la famiglia o la nazione viene considerato un tradimento verso coloro che seguono l’attore, l’attrice, il cantante e via di seguito» dice Volpe. «È come se si sviluppasse un attaccamento morboso per il quale i fan o le fan considerano gli attori “prodotti che devono vivere alle loro condizioni”. Questo ovviamente crea un’eccessiva pressione sulle celebrità che tendono a nascondere la loro vita privata per evitare che nessun tipo di informazione trapeli».
Leggi anche: Come l’IA sta cambiando il cinema