Il linguaggio non è mai fermo. Si muove, si adatta, cambia con la società che lo parla. Ma che cosa accade quando il cambiamento linguistico diventa consapevole, persino programmato, spinto dal desiderio di rappresentare un mondo più giusto e inclusivo? È qui che si colloca il fenomeno del politicamente corretto, tema che il linguista Paolo Di Giovine affronta con equilibrio e profondità, invitando a distinguere tra evoluzione naturale della lingua e scelta culturale guidata.
«Dal punto di vista linguistico — spiega Di Giovine — il politicamente corretto è un modo di esprimersi che non interferisca con le convinzioni dell’uditorio, e che quindi non ferisca la sensibilità degli interlocutori».
Una definizione che sposta il discorso dall’ambito ideologico a quello relazionale: il linguaggio come luogo di incontro, più che di scontro. Non si tratta solo di sostituire parole “sbagliate” con parole “giuste”, ma di riconoscere che ogni espressione è un gesto sociale, un atto di rispetto nei confronti dell’altro.
Nato nel mondo anglosassone e poi diffusosi anche in Italia, il politicamente corretto ha introdotto nuove abitudini linguistiche, dall’uso di studentessa invece di signorina, fino alle formule di saluto che includono entrambi i generi. Si tratta di adattamenti che riflettono un mutamento più ampio: la crescente attenzione verso l’equità e la rappresentazione di genere nel linguaggio quotidiano.
Ma per Di Giovine il cambiamento in atto non segue la logica “naturale” con cui le lingue evolvono. Le trasformazioni spontanee, come la perdita dei casi grammaticali dal latino all’italiano, avvengono lentamente e quasi senza consapevolezza. Il politicamente corretto, invece, nasce da una scelta culturale e sociale, più che da una deriva linguistica.
A promuoverlo non è tanto la comunità scientifica, quanto una parte della società che suggerisce nuovi modi di parlare per allineare la comunicazione ai valori contemporanei.
Non è dunque un’imposizione, ma una spinta collettiva alla sensibilità linguistica. Una forma di autocoscienza che, se ben compresa, può rendere il linguaggio più attento e inclusivo, senza trasformarlo in un campo di battaglia ideologico.
«Le parole sono pietre» ricorda Di Giovine, evocando un’immagine potente e antica. Le parole costruiscono la realtà, possono generare consenso o conflitto, unire o dividere. Oggi più che mai, nell’era della comunicazione istantanea, ogni scelta lessicale ha un impatto che va oltre il contesto in cui nasce.
Ma l’attenzione verso il linguaggio non è un fenomeno nuovo. Un tempo, nota il linguista, riguardava soprattutto le classi colte; oggi, grazie ai media e ai social, la riflessione sulle parole è diventata pubblica e diffusa. Ciò che cambia, quindi, non è la sensibilità in sé, ma la sua visibilità.
Il dibattito linguistico non è più confinato all’università o ai circoli letterari: è diventato parte della vita quotidiana, delle conversazioni, dei titoli di giornale, dei discorsi politici. E in questo senso, la lingua si conferma un campo di continua negoziazione sociale.
Uno dei punti più interessanti del ragionamento di Di Giovine riguarda il cosiddetto “linguaggio inclusivo”. L’idea di rendere visibili tutte le identità è, per lui, pienamente condivisibile; ma il linguista invita anche alla prudenza pratica.
Forme come lo schwa o l’asterisco, spiega, nascono con intenti nobili, ma rischiano di complicare la comunicazione: «vanno male per la scrittura perché sono brutte a vedersi, e non esistono da un punto di vista orale». Meglio, allora, soluzioni più semplici e funzionali — “studentesse e studenti”, “gentili dottore e dottoresse” — che mantengano la chiarezza e rispettino la leggibilità del testo.
La lingua, infatti, non vive solo di principi astratti: deve restare comprensibile, accessibile, naturale. «La profondità di pensiero — ricorda Di Giovine — si può esprimere anche attraverso forme semplici e chiare». La chiarezza non è superficialità, ma rispetto per chi ascolta e per chi legge.
In questa prospettiva, anche le istituzioni linguistiche come l’Accademia della Crusca assumono un ruolo diverso: non più “guardiani della norma”, ma consulenti e mediatori. La lingua, osserva Di Giovine, «va dove vuole lei» , segue le tendenze dei parlanti, non le regole dei grammatici.
Imporre una direzione significherebbe interrompere la comunicazione, rendere la lingua un museo invece che un organismo vivo. È solo con l’uso condiviso e consapevole che si può mantenere l’equilibrio tra evoluzione e tradizione.
Alla fine dell’intervista, Di Giovine rivolge un pensiero ai futuri giornalisti: chi scrive ha il compito di coniugare libertà e responsabilità, creatività e rigore. L’esempio, dice, conta più dell’imposizione: «il buon esempio è più importante dell’ingiunzione».
Il giornalista, come il linguista, è un costruttore di senso: conia parole nuove, ne diffonde altre, orienta l’immaginario collettivo. Da cerchiobottismo a trumpiano, molti termini nati nei giornali sono poi entrati nell’uso comune, a testimonianza di quanto il linguaggio giornalistico contribuisca alla vitalità della lingua.
Il politicamente corretto, osservato con gli strumenti della linguistica, non è una minaccia ma un sintomo: il segno di una società che riflette su sé stessa, che cerca di essere più attenta e consapevole.
Come ogni evoluzione, ha bisogno di equilibrio: tra libertà e rispetto, tra innovazione e chiarezza. Ma soprattutto, ha bisogno di fiducia nella lingua stessa, in quella sua capacità di trovare la propria strada, senza forzature né rigidità.
Perché, come ricorda Di Giovine, la lingua «non obbedisce agli ordini di nessuno». E forse è proprio in questa autonomia che si misura, ancora oggi, la sua straordinaria vitalità.