È nella veranda di sua nonna, curva sulle pagine de La ragazza di nome Giulio di Milena Milani, che Annavera capisce: la fuga dal «provincialismo tossico» deve passare per le parole, per il peso che sappiamo dare loro. Scrivere, «l’unica cosa che penso di saper fare», diventa così l’alleato perfetto per una ragazza di Montella, provincia di Avellino, curiosa di «scoprire cosa ci sia oltre quelle montagne che circondano e proteggono al tempo stesso; una casa a cui è bello sapere di poter tornare», a patto di saperla prima lasciare.
Nata il 9 maggio del 2002, con un core che inevitabilmente nun può purtà pacienza, come canta l’artista napoletano Liberato nel brano a cui proprio quella data dà il titolo, Annavera registra e annota. Riempie pagine di diari nella sua infanzia «solitaria e riservata», plasma la futura «attenta ascoltatrice» che confessa di essere, combatte la tensione a tratti irrisolvibile tra la voglia di «annullare la soggettività» dentro le short stories che scrive (ma non pubblica, custodendole per gli occhi di pochi intimi) e il desiderio di «condurre» per non essere condotta.
«Non amo apparire», racconta, un attimo dopo aver ricordato il suo passato da sassofonista nella Sonora Junior Sax, orchestra di soli sax del suo paese d’origine, scelta perché «si vociferava fosse uno strumento con un ruolo di rilievo» e accantonata quando si rende conto che «era un po’ come continuare a sbattere sulla stessa cosa senza riuscire a raggiungere il massimo, ero solo brava: mi blocco quando so che non posso arrivare all’eccellenza».

Un rapporto con la musica interrotto, ma tutt’altro che terminato, più vivo che mai, anzi, nella collezione di vinili («ne avrò diecimila») parzialmente ereditata da suo padre. Al Green, Marvin Gaye, sfumature di funk, soul e jazz in grado di convivere benissimo con The Dark Side of The Moon dei Pink Floyd, l’album della vita regalatole dal suo migliore amico dei tempi del liceo e la migliore delle compagnie durante i giorni bui della quarantena.
Un incontro significativo almeno quanto quello con i gender studies, che negli anni universitari romani le regalano l’epifania definitiva: «ho iniziato a capire quanto fosse importante essere femminista e il valore che una prospettiva femminista assume per il linguaggio: ciò che non ha spazio in una lingua non esiste. Se non sono in grado di concretizzare ciò che dico, allora non esisto».
Come fare per continuare a esistere, come fare per dare voce a chi non sempre la ha? Annavera si risponde: con il giornalismo. «Quando ti assumi la responsabilità di parlare a nome degli altri qualcosa scatta, capisci che devi parlare di quello che vivi. Il giornalismo è il mezzo perfetto per esternare tutto questo; la reputo in parte una missione, un sacrificio per rendere i temi della causa femminista più accessibili a tutti».
Condurre, di nuovo, non essere condotta. Che si tratti di un podcast o di un programma televisivo capace di sviscerare questioni legate alle tematiche di genere, per portare non solo sé stessa sempre più lontana dalle derive provinciali che la opprimevano, ma anche un futuro pubblico più vicino a ciò che le sta a cuore. Uno spazio dove il dibattito «aiuti a crescere», per ritrovarsi più ricchi, noi e loro, Us and Them, recuperando i Pink Floyd, dal lato della luna dove le parole sanno ritrovare il loro significato.