Nostalgico di un passato calcistico che conosce solo attraverso i racconti del padre, Pietro Morolli, classe 2002, è riuscito a fondere la passione per la scrittura con quella per il calcio. Cresce alla Garbatella, ma muovendosi tra Roma Sud e Roma Nord ha notato differenze che non passano inosservate: «a Sud tutto è più vero, spontaneo e diretto. Viverci mi fa sentire a mio agio, tra persone autentiche. È, per me, una Roma più verace».
Conclude gli studi classici al liceo Visconti di Roma, dove inizia ad affacciarsi al mondo del giornalismo scrivendo i suoi primi articoli sul giornale scolastico Visconti dimezzato. Si definisce un po’ logorroico: non sorprende, dunque, la sua esperienza radiofonica con la trasmissione “A qualcuno piace calcio” e la sua passione per il dibattito, meglio se acceso. È una figura particolare, e questo emerge soprattutto se gli si chiede di elencare alcuni tra gli oggetti di cui non potrebbe fare a meno: risponderebbe senza esitazione biliardino o parole crociate.
Lo sport è parte della sua vita, ma alla domanda «Che squadra tifi?», risponde con grande professionalità: «Nessuna. Scrivendo di calcio, non sarebbe compatibile con la mia imparzialità». Anche se, ammette sorridendo, «l’amore per la Roma non lo abbandonerò mai». Quando si parla di calcio non ha dubbi: l’energia dei tifosi e l’atmosfera dello stadio superano di gran lunga la televisione. È proprio questo che continua a far bruciare la sua passione.
Le sfide, per Pietro, sono il pane quotidiano, e ogni idea che gli passa per la testa sente il bisogno di portarla a termine con tutte le sue forze. Dietro alla formazione del suo carattere c’è sicuramente lo sport: il judo gli ha insegnato la disciplina, mentre l’esperienza estrema con il paracadutismo gli ha dato il coraggio. Il vissuto personale lo ha spinto a rivalutare molte cose: «Ad oggi riesco a vedere il bicchiere mezzo pieno, ma prima non era così».

Se c’è una paura nella sua vita, è quella di una distopia in cui la sopravvivenza diventa una competizione spietata tra i più ricchi. Pietro teme quell’0,01% della popolazione che possiede la maggior parte delle ricchezze e che, controllando l’accesso ai beni essenziali e alle opportunità, finisce per determinare chi può vivere e chi invece non può scegliere. Per Pietro, questa possibilità non è solo un’idea astratta, ma una minaccia concreta alla giustizia e alla dignità umana: la competizione estrema tra chi ha tutto e chi deve lottare ogni giorno per ottenere uno spazio in questo mondo rappresenta un incubo concreto. È una paura che lo spinge a riflettere sul ruolo che riveste la società, l’importanza della solidarietà tra gli individui e il valore di combattere perché le disuguaglianze non diventino il metro della vita di ciascuno. Di certo Pietro non teme di spaziare nel giornalismo. Si dice aperto a nuove esperienze e aggiunge: «Tra dieci anni non so dove mi vedo. Ora condurrei anche un programma sportivo o una trasmissione radio».
Se l’Italia teme una fuga di cervelli, Pietro rappresenta un’eccezione. Dopo aver trascorso un semestre in Nuova Zelanda, è tornato con la consapevolezza di poter fare la differenza nel suo Paese e con la volontà di restare. «Non avrei mai voluto far parte di quel 5% di popolazione», considerando che per ogni persona in media ci sono 25 pecore.
È un ragazzo abitudinario, ama la sua routine e guai a chi osi cambiarla. Tant’è che, se c’è una certezza nelle sue mattinate, sono i minuti dedicati all’ascolto dei podcast. Nonostante la tecnologia, ormai parte costante delle nostre vite, continua a coltivare l’amore per la lettura cartacea.