Per gli utenti di Spotify la fine dell’anno significa una cosa sola: l’arrivo del Wrapped. Nato nel 2016 come un semplice riepilogo di fine anno chiamato Year in Music, lo Spotify Wrapped è diventato un fenomeno culturale. Nel 2017 assume il nome attuale che, tradotto in italiano, significa “avvolto” e nel tempo si trasforma in un rituale digitale irrinunciabile. Non più solo un elenco di artisti e brani più ascoltati, ma un vero format narrativo, colorato e pensato per essere condiviso.
Il motivo di questo successo è meno banale di quanto sembri. Non amiamo davvero i dati, a meno che non parlino di noi e Spotify lo sa. Durante tutto l’anno la piattaforma non dà accesso a statistiche dettagliate: nessuna classifica personale, nessuna percentuale, nessun conteggio minuto per minuto. Questo genera un curiosity gap, un piccolo vuoto di informazioni che ci accompagna per mesi. Il Wrapped arriva proprio per colmarlo, offrendoci improvvisamente un ritratto completo delle nostre abitudini sonore.
E non si tratta di un ritratto in bianco e nero. Negli anni, Spotify ha incorporato un vero e proprio storytelling nei dati: non ci dice soltanto quali canzoni abbiamo ascoltato di più, ma quando, come e con quale intensità emotiva. Ci racconta che a febbraio abbiamo avuto un periodo malinconico, che siamo tra lo 0,02% dei fan più devoti di un artista o che i nostri gusti musicali assomigliano a un “sandwich di generi” improbabile ma sorprendentemente accurato. Le dodici personalità d’ascolto, i club di appartenenza, le grafiche astrologiche: tutto serve a trasformare statistiche fredde in un racconto identitario, un gioco psicologico in cui ognuno può riconoscersi.

Nelle settimane prima della pubblicazione iniziamo a farci domande, come fosse un esame di coscienza musicale. Sarà ancora quel cantante l’artista più ascoltato? Quanto ci avrà influenzato quella playlist estiva? E quell’album ascoltato per tre giorni di fila avrà lasciato un segno? Fantastichiamo, ci confrontiamo, facciamo previsioni. Il Wrapped diventa così un appuntamento emozionale, un rituale che scandisce la conclusione dell’anno.
Ma c’è un altro elemento psicologico fondamentale. Tendiamo a credere di essere più unici e più sofisticati di quanto realmente siamo. Vogliamo sentirci speciali, diversi, superiori. E il Wrapped alimenta questa sensazione. Ci permette di flexare, di mostrarci, di rivendicare gusti musicali che percepiamo come distintivi. Non è un caso che Spotify abbia progressivamente modellato la grafica del Wrapped per adattarla alla perfezione alle Instagram Stories: colori saturi, testi corti, formati verticali, icone facilmente riconoscibili. L’obiettivo principale non è solo informarci, ma incentivare a condividere. La condivisione non è un effetto collaterale, è la destinazione.
Dietro a un semplice resoconto delle nostre abitudini di ascolto c’è molto di più. C’è psicologia, marketing, desiderio di appartenenza e voglia di riconoscimento. Il Wrapped è una piccola confessione delle nostre orecchie. Rivela parti della nostra identità o forse della nostra obbedienza ai trend e le trasforma in un racconto digitale che ci piace mostrare al mondo. Ed è proprio per questo che lo amiamo: perché non parla della musica. Parla di noi.