«Erano nella stanza accanto, facevano un rumore infernale e mi chiamavano. Ma non potevo abbracciarli». Enrico ha 37 anni, fa il medico di base a Cerro Maggiore, comune in provincia di Milano. A marzo ha contratto il Coronavirus e trascorso la quarantena chiuso in camera da letto. A separarlo dai suoi due figli, di 5 e 2 anni, c’era solo una porta. «Stare un mese senza vederli è stata la cosa più difficile».
Il 21 febbraio, quando in Lombardia è scoppiata l’emergenza, si è trovato in prima linea. Insieme ai colleghi con cui condivide l’ambulatorio, si è subito attivato per cercare i dispositivi di protezione. «Tramite telefonate ad amici e farmacisti, siamo riusciti a recuperare un paio di mascherine Ffp2 a testa. Le abbiamo utilizzate per tutto il mese successivo, tentando di sanificarle. Il filtro, però, ha perso di efficacia e mi sono ammalato. Non dimenticherò mai quel 22 marzo passato al pronto soccorso. La febbre alta mi aveva indebolito e facevo fatica a respirare. Ma il mio organismo ha reagito e il 23 aprile l’incubo è finito».
Molti colleghi di Enrico non sono stati così fortunati. In Lombardia sono morti 22 medici di famiglia. La dottoressa Paola Pedrini, Segretario regionale della Federazione Italiana Medici di Medicina Generale della Lombardia, è critica. Ha riscontrato diversi problemi nella gestione della fase 1.
«Non c’erano i dispositivi di protezione individuale, per cui molte visite domiciliari sono saltate o sono state effettuate mettendo a rischio le nostre vite. Siamo liberi professionisti, ma in una situazione di emergenza spetta alla Regione fornirci gli strumenti. Qualcuno ha provato a procurarseli in maniera autonoma, ma spesso gli ordini sono stati sequestrati dalla Protezione civile e dirottati sugli ospedali. Per fortuna ci sono le donazioni».
Ritardi e problemi burocratici ne hanno rallentato l’acquisto. Come ricostruito da Fabrizio Gatti sul settimanale L’Espresso, il 27 febbraio la Regione Lombardia aveva promesso la distribuzione di 4 milioni di mascherine. Ma il 2 marzo l’ordine sarebbe stato cancellato, perché le aziende individuate non potevano soddisfarlo. Un errore che è costato caro, soprattutto ai medici di base e delle guardie mediche, che hanno ricevuto i primi 5000 modelli solo il 23 marzo.
Un altro problema sono stati i protocolli terapeutici e la gestione dei malati. «Molti farmaci non potevano essere prescritti, se non dopo l’accesso in ospedale» – prosegue Pedrini – «se si rende necessario il ricovero, l’assistenza territoriale non ha più senso. Per non parlare della questione tamponi. All’inizio, e per gran parte dell’emergenza, venivano fatti solo dopo il passaggio in pronto soccorso. In seguito si sono attivate anche le Aziende Tutela della Salute (ATS), le strutture che si occupano della sanità in Lombardia. Ma il numero rimane inadeguato. Una cosa è cambiata nelle ultime due settimane: ora a noi medici di base è permesso segnalare i pazienti che devono sottoporsi al test. Indichiamo quelle persone che non lo hanno mai fatto, ma mostrano un quadro sospetto e devono rientrare a lavoro».
«Inoltre alcune ATS stanno cercando di acquistare macchinari in grado di processare 2000 tamponi al giorno, rispetto ai 100 che oggi si possono sviluppare. Purtroppo l’iniziativa è partita da poco tempo, gli apparecchi andavano cercati prima dell’emergenza. L’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva già lanciato l’allarme, ma non è stato fatto un approvvigionamento adeguato».
Anche le iniziative della Regione in occasione della fase 2 non convincono la dottoressa Pedrini.
«Non c’è nessuna proposta concreta. Non si affrontano le difficoltà emerse nella fase 1. Nonostante sia stata compresa l’importanza del nostro ruolo, non siamo stati interpellati come parte attiva, al contrario degli ospedali».
La mancanza di adeguati sistemi di protezione non ha riguardato solo la Lombardia. Anche nel Lazio, i sanitari hanno a lungo lavorato proteggendosi come potevano. La Regione ha speso 35,9 milioni per una maxi fornitura di mascherine entro il 18 marzo. Dei 9,5 milioni di dispositivi ordinati, ne sono arrivati solo 2 milioni.
«I primi venti giorni me le ha prestate un dentista che lavora sullo stesso pianerottolo del mio studio. Per fortuna ne era fornito, grazie alla sua attività», spiega a Zeta il dottor Michele Coccoli, medico di base a Roma, specializzato in Malattie dell’apparato respiratorio. «Appena si è diffuso il panico, non ho fatto in tempo ad andare in farmacia o dai fornitori di articoli sanitari, che già tutto era esaurito. La ASL ci ha inviato i dispositivi dopo un mese, ho rischiato veramente grosso».
In questi mesi il lavoro di tanti medici di base si è adattato alla situazione. Limitati al massimo i contatti, pazienti sentiti per telefono e visite solo per i casi più gravi, con ricette inviate via mail o WhatsApp. Il futuro è il telemonitoraggio: attraverso una piattaforma, si segue un paziente che presenta i sintomi da Coronavirus e si valutano i parametri vitali, dalla temperatura alla saturazione di ossigeno nel sangue. A questa pratica si può aggiungere il teleconsulto, cioè una videochiamata con la persona. Altra tecnica diagnostica è la telemedicina, un sistema che consente di trasmettere i risultati di esami e referti a distanza. In Lombardia, alcune cooperative di medici, con incentivi della Regione, si stanno organizzando per mettere a disposizione dei propri iscritti questi mezzi, completamente gratuiti. Un modello lontano dai canoni classici della scienza medica, che però ha bisogno di nuovi strumenti contro un’emergenza non ancora archiviata.