La pandemia Covid ci fa sentire sull’orlo di un precipizio, stretti tra crisi irrisolte, questione ambientale, disarmo nucleare, e nuove minacce, uso antidemocratico dei Big Data, tecnologia incontrollata, nuove dittature: siamo all’alba di un “1984” del XXI secolo, torna il totalitarismo paventato dallo scrittore inglese George Orwell nel suo celebre romanzo, o il 2050 che ci attende non deve farci paura?
«Immaginare il futuro è insito nella natura umana, perché l’ignoto è una fonte di preoccupazione costante: è un’attività molto più politica di quanto non si pensi, quando si risolve nel tentativo di dare risposte a una realtà che cambia, oggi più velocemente che mai. Il ragionamento può però rivelarsi fallace e ridursi a una mera speculazione quando non facciamo altro che traslare in avanti una situazione contingente, di fatto decontestualizzandola da tutti i possibili mutamenti che da qui a una certa data potrebbero avvenire». Le parole di Federico Niglia, professore di Storia Contemporanea presso la Facoltà di Scienze Politiche della Luiss Guido Carli, riportano alla mente alcune vecchie illustrazioni di Jean-Marc Coté, disegnatore francese attivo all’inizio del Novecento, pubblicate in una raccolta dal titolo “En l’an 2000” (nell’anno 2000): vascelli tenuti in volo da giganteschi palloni aerostatici, barbieri automatizzati, pompieri alati, macchine da trucco per le signore e altre invenzioni improntate alla velocità delle comunicazioni e alla comodità domestica danno corpo all’idea di un futuro ipertecnologico, ma ancora tutto ottocentesco nei suoi aspetti “sociali”. La vita pubblica è appannaggio di soli maschi imbellettati secondo una moda da belle epoque, inquadrati in un rigido sistema gerarchico, e nessuna ragazza ha l’aria di vestire come Madonna, o di poter ambire ai traguardi lavorativi di Samantha Cristoforetti: le donne sono ancora “le regine della casa” e non c’è alcuna traccia di rivoluzioni sociali. Più che l’anno 2000, sembra il 1900 cent’anni dopo.
«Bisogna diffidare dei cosiddetti “futurologi”. Quando pensiamo al domani dobbiamo farlo in senso politico, associare il pensiero all’azione, per dirla alla Mazzini. Il futuro non si vaticina, si programma, nei limiti del possibile. Non si può pensare di lasciare tutto al caso. Paesi come gli Stati Uniti hanno il National Security Council (Consiglio per la Sicurezza Nazionale), l’organo che consiglia e assiste il Presidente in materia di sicurezza e di politica estera, che per sua natura si pone il problema di come il mondo stia cambiando e che di continuo elabora strategie per interpretare al meglio i cambiamenti. Quanto anche l’Italia avrebbe bisogno di organi di questo tipo nei ministeri chiave…».
Già, professore, che accadrà in Italia, Paese che stentava a uscire dalla crisi economica del 2008 e con un governo Conte II non più forte del Conte I? «Noi siamo un Paese a cui guardare per capire qualcosa del futuro, soprattutto da un punto di vista sociale. L’Italia è al confine della tettonica delle placche sotto il profilo geopolitico, è il crocevia di tanti mondi, quello europeo, quello africano e orientale, perciò osservare l’evoluzione del quadro qui da noi diventa fondamentale. Del resto le sfide che attendono l’umanità da qui al 2050 ci coinvolgono in pieno come popolo e come Stato: penso alla crisi migratoria, dovuta in buona parte ai cambiamenti climatici, e penso ai delicati equilibri geopolitici all’interno dei quali ricopriamo un ruolo di attori non protagonisti».
Esisterà ancora l’Italia nel 2050 come Stato unitario e sovrano: «Ci sono alcuni fattori che potrebbero disgregarla e che non riguardano solo l’Italia: uno su tutti un crescente internazionalismo obbligato, dettato dalla portata globale delle sfide che ci attendono da qui ai prossimi trent’anni. C’è la convinzione, giustificata, che nessuno Stato possa risolvere i problemi da solo». A questo punto, la memoria corre alle profezie mondialiste di Paul Amadeus Dienach, un professore svizzero che nel 1921, a seguito di un anno trascorso in stato di coma a causa di un’encefalite letargica (una patologia di origine virale che attacca il cervello), affermò di aver visto, in sogno, il futuro dell’umanità fino all’anno 3906. Nella sua visione pubblicata cinquant‘anni più tardi nel libro “Cronache dal Futuro”, Dienach era stato testimone della scomparsa delle nazioni e dell’avvento di un governo mondiale, dapprima sorretto da una struttura democratica, poi degenerato in una spietata tirannia, coincidente con quella che definì “L’Era oscura dell’umanità”.
«Un’ipotesi possibile, ma non verosimile. Non penso affatto che le cose andranno così. Anzitutto credo che di sovranazionalismo si parli in modo troppo superficiale e frettoloso: non dobbiamo dimenticare che lo Stato ha un nocciolo duro, che è la difesa di una comunità identificata: è il compromesso ideale tra un campanilismo che garantisce il massimo collegamento tra potere e cittadino, ma che ti rende irrilevante a livello internazionale, e una dimensione sovra statale che si integra meglio con il mondo ma che non è in grado di difenderti e di tutelare in modo efficiente gli interessi del singolo. Non sottovaluterei questo aspetto che è stato sempre, ed è tutt’ora, il punto forte dello Stato. Quindi credo che l’Italia nel 2050 esisterà, ci sono ottime ragioni perché continui ad esistere».
Quanto alla questione della minaccia di un autoritarismo globale, o di un’affermazione di plurime dittature sul pianeta, il tono si fa più serio: «una vecchia sociologia sosteneva che solo i regimi dittatoriali possono rispondere in maniera pronta ed efficace a situazioni sociali di estrema emergenza. Questo è falso in termini assoluti, anche se la Storia ci dimostra come in momenti di crisi la tentazione di delegare i processi decisionali a un singolo o a un gruppo ristretto di persone si faccia più forte, se non addirittura irresistibile. Io credo però che anche qui si tenda a sottovalutare un elemento di cui solo la democrazia dispone e che gli autoritarismi non potranno mai garantire: la libertà collettiva. Il bisogno dell’uomo in quanto animale sociale di essere libero, nel corpo e nel pensiero, che non può essere compresso per un tempo indeterminato».
«Gli autoritarismi hanno un tarlo fatale: o riescono a trasformare l’uomo in un automa definitivo, oppure se lasciano anche solo un barlume di libertà di azione e di pensiero, sono destinati a crollare. La democrazia è un sistema fragile, è vero, ma le dittature lo sono altrettanto se non di più».
E poi c’è il fattore tecnologico, lo sviluppo del digitale e il rischio che un uso distorto di esso possa portare a quello che lo storico israeliano Yuval Noah Harari definisce “l’uomo hackerabile, manipolabile e controllabile”: «Sicuramente la questione dei Big Data sarà una partita cruciale: un tempo si diceva che regimi dittatoriali come l’Unione Sovietica non fossero efficienti e non riuscissero a esercitare un controllo capillare; pensiamo ora a cosa potrebbero fare questi regimi con una mole pressocché sconfinata di dati a disposizione. Questo sarà il terreno su cui non si dovrà cedere, il vero punto dirimente. Guardiamo al futuro con realismo ma con la consapevolezza che nulla è già scritto, e che partecipare ai cambiamenti è la chiave per preservare un destino di libertà».