Combattere la cattiva informazione è la sfida del presente e del futuro del giornalismo. Ormai nella cassetta degli attrezzi del buon giornalista non possono più mancare gli strumenti per capire e saper affrontare un mondo in cui le fake news sono armi in grado di costruire narrative, spostare voti, plasmare scenari geopolitici.
Per comprendere come le cose stiano cambiando, la Scuola di Giornalismo della Luiss ha ospitato giovedì scorso il seminario di Costanza Sciubba Caniglia e Irene V. Pasquetto, studiose di disinformazione e ricercatrici allo Shorenstein Center on Media, Politics and Public Policy dell’Università di Harvard.
Di cosa parliamo quando parliamo di disinformazione
Per orientarsi nel campo della cattiva informazione è necessario, in forma preliminare, fare ordine con la terminologia. Con mis-informazione si intende un’informazione falsa che non ha intento di danneggiare. Con il termine mala-informazione si intende invece una notizia vera, posta in un contesto sbagliato che la rende fuorviante. Se una notizia è falsa e costruita per creare danno, si parla infine di dis-informazione. Una notizia falsa può essere messa in circolazione per divertimento ma anche, caso più allarmante, per ragioni politiche e interessi economici.
«La disinformazione funziona perché attiva un sentimento di paura o angoscia che abbassa le nostre difese psicologiche» – precisano le due ricercatrici – «tutta l’informazione viene assimilata bypassando la parte razionale». Le informazioni false, proprio perché nuove e inaudite, risultano così molto più attraenti delle notizie vere e per questo sono più soggette ad essere condivise e diffuse sui social. Una vera gallina dalle uova d’oro per la propaganda politica che ha affinato varie tecniche, tra cui l’ormai noto sistema dei Bot, software che accedono ai social network e che attraverso account falsi veicolano notizie errate.
Un altro pattern utilizzato dalla propaganda nel campo della disinformazione è quello delle 4D: dismiss, distort, distract, dismay. Se non ti piace quello che i tuoi critici dicono, insultali. Se non ti piacciono i fatti, distorcili. Se ti accusano di qualcosa, contrattacca accusando a tua volta. Se qualcuno sta progettando qualcosa che non ti piace, spaventalo. La strategia comunicativa sui social del Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, si basa spesso su questa tecnica. Le tattiche per fare disinformazione possono però variare. «Durante l’emergenza Coronavirus l’Italia è stata terreno di propaganda da parte di Cina e Russia. La prima ha privilegiato un approccio positivo, volto a impiantare narrative. La seconda ha invece preferito diffondere narrative alternative per creare confusione».
Cosa possono fare i giornalisti?
Alcuni studi hanno mostrato che se i media utilizzano lo stesso linguaggio dei propagandisti, finiscono per supportarlo. Per decostruire le narrative tendenziose e fuorvianti è importante cambiare i termini, variare il frame, far ricorso ad altri strumenti linguistici. Ed è fondamentale ripetere la notizia vera più di quella falsa.
«I media amplificano la disinformazione che già esiste. Quest’ultima non si può combattere se i media tradizionali fanno disinformazione in prima serata. È un problema sistemico, di deontologia del giornalismo. Per questo è importante stabilire un legame tra giornalismo e disinformazione».
Un alleato inaspettato per i giornalisti può arrivare direttamente dal mondo accademico. Lo Shorenstein Center e la Harvard Kennedy School hanno lanciato, a gennaio, la Harvard Kennedy School Misinformation Review. Si tratta della prima rivista accademica contro la mis- e dis-informazione. L’obiettivo è quello di rendere accessibili a politici, policy makers e soprattutto a giornalisti le ricerche scientifiche nel campo della cattiva informazione. La rivista ha tempi di verifica dei contributi molto rapidi e ha già pubblicato una ventina di articoli, la metà dei quali affronta il tema della disinformazione negli Usa durante l’emergenza Coronavirus. Per consultarla basta accedere al sito https://misinforeview.hks.harvard.edu