«A Mandrake, ma ‘ndo vai?» Stavolta lo sappiamo. Nessun inchino al pubblico, nessun bis. Cala il sipario. Gigi Proietti se n’è andato nelle prime ore del 2 novembre per un’insufficienza cardiaca. A Roma, “de botto”, ha colto tutti di sorpresa nel giorno del suo ottantesimo compleanno. Come già successo a William Shakespeare, l’artista che forse ha amato più di tutti.
«È riduttivo definirlo insegnante. Era un fiume in piena che ti travolgeva con la sua bravura. Più che da studiare, Gigi era da rubare con gli occhi. Come fa un apprendista nella bottega di un artigiano». Claudio si emoziona, trattiene a stento le lacrime. Incontra l’artista romano nel 1978, prima ancora di iniziare la sua scuola di recitazione. Lo ammira, lo conosce e poi lo segue da vicino.
«Una persona semplice, non esiste definizione migliore per lui. Famiglia umile, che gli insegna il rispetto per il lavoro e il sacrificio. Da ragazzo passa la serate a cantare nei night club, esperienza che lo forma e lo fa crescere». La giurisprudenza – che abbandonerà a pochi esami dalla laurea – è un momento di transizione. «All’università legge un annuncio nella bacheca degli studenti. Parla del Cut, il Centro universitario teatrale. È un lampo. L’inizio di un nuovo percorso, sempre alla scoperta». Teatro e cinema, musica e tv. Poesia. Era poliedrico Gigi, amava l’arte e le sue sfumature. L’elenco delle interpretazioni è infinito. Dallo schermo al palcoscenico, era una star. Sempre in camicia bianca e pantaloni neri. Discreto ma profondo, simpatico e mai banale. Umano.
Da Se permette parliamo di donne – dove nel 1964 recita con Vittorio Gassman – al ruolo di “Mangiafoco” in Pinocchio, ultima rivisitazione – nel 2019 – dell’opera di Collodi, con regia di Matteo Garrone. Senza dimenticare, per citare i più noti, Brancaleone alle crociate (1970), Febbre da cavallo (1976) e Casotto (1977). E poi il teatro, con le rappresentazioni di maestri come Aristofane, William Shakespeare, Bertolt Brecht e Luigi Pirandello. «Sul palco era un talento, una forza della natura. L’eccellenza per lui era normalità». Dal primo doppiaggio, quello di Gatto Silvestro, al celebre grido di Rocky. È lui, infatti, a urlare “Adriana” nel primo episodio della serie. Senza dimenticare sketch, improvvisazioni e barzellette memorabili.
«Era difficile fare discorsi seri con lui, soprattutto a cena. La cosa che gli ho sempre ammirato è però la grande curiosità nei confronti della vita. Amava la risata, lo si leggeva nei suoi occhi. E aveva un’unica passione, il lavoro, che gli permetteva di disegnare la realtà nella finzione». Nel suo teatro, dove tutto era finto ma niente era falso.
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