«Per la prima volta materiali e contenuti artistici forniscono dei mezzi di sussistenza a chi non ha neanche il privilegio di sopravvivere». Dalia Maini, assistente online editor di Arts of the Working Class, racconta a Zeta la missione e l’idea da cui nasce questo Straßenmagazine (giornale di strada) berlinese d’arte contemporanea.
«È un progetto semplice ma allo stesso tempo complesso» spiega Maini. «Nato nell’aprile 2018 e giunto alla 15esima edizione, Arts of the Working Class è un bimensile fondato dall’artista Paul Sochacki, che ha chiamato a collaborare come editor María Inés Plaza Lazo e Alina Kolar. È un giornale anti-capitalista e anti-imperialista che tratta di arte, società, cultura, povertà e ricchezza».
Il nome della testata deriva dalla convinzione che vi sia oggigiorno una progressiva erosione del concetto e del senso di appartenenza a una classe, anche nel mondo dell’arte.
L’idea dietro il giornale è che l’arte debba connettersi con la società per toccare posti e persone che normalmente sono escluse dai tradizionali circoli elitari.
Da qui, la particolare maniera di distribuzione del giornale che avviene attraverso i senzatetto. Arts of the Working Class infatti si inserisce nel filone dei cosiddetti “giornali di strada”, distribuiti per le strade o nelle metropolitane delle grandi città dalle persone senza fissa dimora che tengono poi il ricavato delle vendite, traendone un mezzo di sostentamento.
AWC tuttavia, è molto più di un giornale che vuole creare un movimento economico per gli homeless, sia per il tipo di cultura che promuove che per il modo in cui lo fa.
Particolare attenzione, come già detto, viene dedicato al mondo dell’arte: «La nostra è un’analisi abbastanza forte di quelle che sono le problematiche di questo mondo che oramai esclude tutto ciò che non abbia un ritorno economico. Tant’è vero che abbiamo lanciato recentemente un progetto che si chiama l’Union des Refusés (invece del Salon des Refusés), ovvero un abbozzo di sindacato per gli artisti. Stiamo cercando dei modi più organizzati per creare una classe di lavoratori nel mondo dell’arte che sia più consapevole di quelli che sono i suoi diritti e i suoi privilegi».
Oltre che per le idee che veicola AWC è particolare anche per il suo aspetto e i tipi di contenuti che propone. La prima caratteristica che salta agli occhi è la varietà linguistica. Ogni edizione ha una lingua specifica che emerge anche dal formato del titolo, il cui font vagamente neogotico viene piegato di volta in volta ai caratteri merlettati del cirillico o alle linee dritte dell’italiano o del tedesco o – come nel caso dell’ultimo numero dedicato alla decolonizzazione – alle grazie delicate del coreano. Ogni edizione presenta articoli scritti in diverse lingue così può capitare che nell’editoriale che non ti aspetti dedicato al concetto di cura (come nel caso della nona edizione del giornale) si passi repentinamente dall’inglese al rumeno più o meno verso la metà del testo. «Così come ci piace creare una valuta di scambio economica, vorremmo crearne anche una conoscitiva, poiché magari chiedere a qualcuno che conosce il rumeno di tradurre un articolo in quella lingua porta le persone ad abbassare le barriere, a confrontarsi e a imparare» spiega Maini.
Anche lo sfoglio è particolare. Abituati alla normale impaginazione fatta di testo e immagini rigorose se ne sostituisce una ricca di illustrazioni d’autore a piena pagina, poesie disposte intorno a immagini dalle forme romboidali e foto da rivista patinata; il tutto su carta di giornale comune. L’ultimo numero inoltre è composto solo da recensioni di libri a tema “decolonizzazione”. «Una delle caratteristiche dell’imperialismo è la costante ricerca di novità, il progresso del bene materiale non fa che arricchire i meno e svuotare la testa dei più. Come facciamo a decolonizzare allora? Abbiamo pensato di invitare autori specifici a recensire testi che possono essere rilevanti nel processo di decolonizzazione. Sarà un numero solamente di recensioni e abbiamo cercato di renderlo il più possibile interessante».
Il giornale tedesco Der Kunde (il cliente), fondato nel 1927, viene considerato il primo di questo tipo. Da allora se ne sono aggiunti molti altri in tutto il mondo: dall’inglese The Big Issue ai tedeschi motz, streem e Karuna Kompass, solo per citarne alcuni.
Il panorama tedesco è particolarmente florido da questo punto di vista, con una quarantina circa di testate di questo tipo. Non è insolito infatti imbattersi – mentre si aspetta la metro sulla banchina della U-Bahn a Berlino – in un senzatetto che, ai pendolari e ai turisti distratti, sottratti per qualche momento ai propri cellulari, porge gentilmente uno di questi giornali scambiando di solito anche qualche parola.
Il prezzo del giornale venduto in strada è fissato a 2,50€ ma non sono rare le contrattazioni con il senzatetto di turno mentre si aspetta fermi sulla banchina che arrivi il vagone della metro.
«È un modo per creare una fonte di reddito per coloro che vivono per strada» spiega Maini. «La nostra redazione non trae alcuna fonte di profitto da questo giornale. Ci finanziamo attraverso la vendita di pubblicità di istituzioni artistiche che seguono il nostro stesso principio socialista oppure facciamo richiesta di fondi. Non riceviamo fondi statali e ultimamente abbiamo aperto alle sottoscrizioni con dei prezzi molto equi e tutto il ricavato è devoluto alle stampe successive».
Di solito i senzatetto che vogliono vendere le copie di AWC vengono a conoscenza del progetto grazie al passaparola, oppure attraverso il giornale stesso che, nelle prime pagine, riporta una lista dei punti di ritiro. «La cosa carina è che noi lasciamo le copie dei giornali fuori dal nostro ufficio e quando i senzatetto le vengono a prelevare non ne prendono mai troppe, non sono avidi. È come se pensassero che anche altri devono riceverne e dunque avere una fonte di sostentamento», dice Maini.
Per ora Arts of the Working Class è disponibile in Germania, Austria, Belgio, Regno Unito, Canada, Stati Uniti ed Ecuador e si spera arrivi presto anche in Italia.
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