«C’è bisogno di gente che venga lasciata libera di esprimersi e viva lo sport sulla pelle, non che lo impari sui libri. Quando andavo a bordo campo, non mi aspettavo nulla. Lasciavo fosse la partita a sorprendermi. Poi quella vibrazione lungo la schiena, improvvisa, intensa: il ragazzo era quello giusto». Al telefono la voce di Attilio Olivieri è malinconica. Settant’anni, per quasi quaranta ha fatto l’osservatore sui campi di calcio, scoprendo talenti e innamorandosi del suo sport, ogni giorno di più.
Primo di sei figli, cresce tra Tor Pignattara e il Pigneto, quartieri della zona sud-est di Roma. La sua è la storia di chi fatica a camminare con le scarpe bucate, ma non rinuncia a calciare un pallone. Il pomeriggio, appena uscito da scuola, aiuta il padre nell’attività di famiglia, un negozio di casalinghi che vende bombole del gas, legna e carbone. «A 9 anni mettevo via i libri ed ero già stanco, ma quando papà si assentava per le consegne scappavo all’oratorio. Sapevo sarebbero state botte, ma ne valeva la pena. Altro che accademie. Dalla tecnica alla visione di gioco, le cose importanti le imparavi lì».
Il calcio gli entra dentro, ogni domenica lo spinge sui campi di periferia. Fuma, osserva. Il rettangolo è come uno spartito, le note hanno i numeri sulla maglia. Nei giocatori cerca l’armonia del movimento, la perfezione del gesto. E quando qualcosa stona, li sposta idealmente, avanti e indietro. «È iniziato tutto nel ’77. Al centro sportivo Omi salivo sugli spalti, lontano da polemiche arbitrali e commenti faziosi dei genitori. In una partita io cercavo altro».
Il talent scout ed ex professionista Luciano Giudo si accorge di lui e lo chiama all’Olimpica, squadra della zona Flaminia, dove resta 8 mesi. Da lì al Cynthia di Genzano, fino al “botto” col Celano, Abruzzo, in Serie C. Lì costruisce una squadra Allievi competitiva, che conquista la semifinale nazionale contro la Fiorentina, persa 3-1. Poi la Roma. «Chiamai Giuseppe Luciano Lupi, responsabile tecnico del settore giovanile giallorosso, uno che aveva scoperto Gigi Riva. Avevano mandato via un ragazzo promettente e glielo feci riprendere. Dissero che per me le porte di Trigoria sarebbero state aperte». È l’inizio di una storia lunga, intensa. Rimarrà fino al 2007, lavorando per anni al fianco di Bruno Conti. Nel mezzo il biennio con la Lazio, dove collabora con il direttore sportivo Walter Sabatini e l’ex calciatore Giuseppe “Beppe” Dossena.
Tante le scoperte, da Pellegrini a Florenzi, da Romagnoli a Politano. Ma il grande rimpianto di Attilio Olivieri è uno: «Massimiani, classe ’77, terzino destro dell’Ostia Mare, primo anno della categoria Esordienti. Tecnica, cambio di gioco, idee. Mi faceva impazzire. Così lo portai alla Roma e rimasero tutti impressionati. Compreso Francesco Totti, che lo chiamava “Er Pantera”. Era un felino, con passo felpato faceva avanti e indietro sulla fascia. Avrebbe dovuto esordire con la prima squadra di Carlo Mazzone, ma un’amichevole in Germania fu fatale. Un infortunio grave, la sua carriera finì in quel momento. Lui sì che mi manca. Ancora oggi».
Ha conosciuto tanta gente e la Roma gli ha lasciato il segno. Il calcio però non lo coinvolge più, una passione che si è raffreddata, perché oggi tutto è diverso. E di moderni sistemi di scouting parla controvoglia: «Il problema è a monte, sono spariti i maestri, quelli che insegnavano il mestiere. La telecamera non sa valutare chi si muove senza palla, si smarca e suggerisce il passaggio. Non è come l’occhio umano. E poi non importa il numero di gol, o assist. Spesso le qualità si vedono dagli errori. Se uno non avesse fantasia, quella giocata non gli sarebbe mai venuta in mente».
Sostiene che le statistiche siano utili per una selezione, ma li considera numeri freddi, che mettono sullo stesso piano dieci atleti solo perché hanno cifre simili. «Chi stabilisce quale sia il più bravo? Ma soprattutto manca la prospettiva. Non si può dire che un ragazzo ne dimostri una percentuale. O ce l’ha, o niente. E poi in questi sistemi ognuno mette un dato. È tutto un minestrone».
Per Attilio Olivieri nessun dubbio: l’osservatore è il cuore di una società sportiva. «È come un pezzo di creta da plasmare. Deve essere questa la missione dei dirigenti, per dare nuova linfa a un mestiere che va tramandato, come facevano gli artigiani coi garzoni di bottega. Una professione che permetta di capire quanto il calcio assomigli alla vita e sia importante per un bambino rincorrere un pallone. È lui che sbaglia, impara, cresce. Oggi per cercare di vincere, si finisce per perdere, con l’aggravante di aver illuso un ragazzo».