A Wudaokou, quartiere universitario di Pechino, le strade erano affollate da ragazze e ragazzi intenti a godersi le prime sere d’estate. Tra le loro risate Lelene era immobile sotto una delle tante videocamere che riempiono le strade della capitale cinese. Secondo i dati raccolti da IHS Markit, azienda che raccoglie e analizza dati per i principali mercati mondiali, nel 2018 il Paese aveva già 350 milioni di telecamere di sorveglianza installate: una ogni 4,1 cittadini. Ed entro il 2021 il totale raggiungerà i 560 milioni. «Sono rimasta lì ferma per più di quindici minuti», anche se ammette di non ricordare quanto tempo ci sia voluto ai poliziotti per capire che non era lei la ragazza che stavano cercando e che pensavano di aver trovato attraverso il riconoscimento facciale. «Come cambia la percezione del tempo quando siamo spaventati». Lelene scherza, ma la sua è una risata nervosa.
I capelli neri le cadono sul viso dai tratti orientali. La sua famiglia, racconta, è di origine cinese ma vive a Parigi ormai da due generazioni. «Nonostante questo ho un forte senso d’appartenenza al mio Paese d’origine», Lelene parla cinese in modo fluente e quando può cerca di tornare nei luoghi dove i suoi nonni sono nati e cresciuti. «La mia ultima volta a Pechino è stata nel marzo del 2019, quando ho frequentato per tre mesi un corso di lingua», racconta. Ma saranno le sue origini a trarre in inganno le videocamere del rigido sistema di sorveglianza della Cina. «Nel riconoscimento facciale i dati raccolti dalla macchina sono quelli biometrici». Vincenzo Tiani, partener associato dello studio legale Pennetta&Assocciati e specializzato in privacy e diritto delle nuove tecnologie, spiega che in questo complesso sistema le videocamere analizzano e individuano aspetti del visto, come la distanza tra gli zigomi, riconducibili ad un unico individuo. «Ma anche una tecnologia così avanzata ha bisogno di allenamento. In un Paese come la Cina, in cui ci sono miliardi di persone, la macchina ha imparato a riconoscere individui dai tratti somatici asiatici rispetto ad altri», ma secondo Tiani questo è anche il motivo per cui può commettere errori.
L’ultima sera a Pechino Lelene era presa da ricordi e saluti, quando due poliziotti le si sono avvicinati a passo deciso. «Mi hanno chiesto di spostarmi dall’altro lato del marciapiede dove non c’era nessuno, così la videocamera poteva riprendermi meglio. Non hanno detto altro», confusa Lelene ha seguito le direttive dei due uomini. «Non sapevo che pensare. Ho ripercorso in testa quei tre mesi a Pechino, ma non avevo fatto nulla di strano». Dopo aver fissato una videocamera su un palo di ferro, «senza muovermi o fare espressioni» aggiunge Lelene, i poliziotti hanno ricevuto una chiamata e le hanno detto che poteva ritornare dai suoi amici. «Non m’importava nulla del perché, ero solo contenta e sollevata che fosse passato». Neanche mezz’ora dopo altri tre poliziotti le si avvicinarono con la stessa “richiesta”. Dieci minuti «senza muovermi o fare espressioni» e poi un altro sospiro di sollievo alle parole dell’uomo: «Può andare». Ma questa volta Lelene aveva bisogno di capire cosa stesse accadendo: cercavano una ragazza che aveva creato “problemi” quella mattina e che secondo i dati biometrici raccolti dalle videocamere poteva essere lei. «Io sapevo di non essere quella ragazza, ma ho deciso di tornare nel mio appartamento per sicurezza. Avevo paura che potesse accadere ancora o che potesse andare peggio».
Il riconoscimento facciale è ottimale con foto e immagini, ad esempio in azioni quotidiane come sbloccare il telefono. «In Cina, è molto utilizzato per pagamenti, prenotazioni e tanto altro. Non pensavo che avrei mai potuto aver paura di questo tipo di tecnologia», racconta Lelene. «In questi casi si vede bene il volto e siamo fermi. Ma con le persone in movimento la situazione si complica a causa della risoluzione delle videocamere oppure delle condizioni climatiche. Non è una tecnologia perfetta, utilizzarla come mezzo di condanna è sbagliato. Non solo in Cina, anche in Europa», spiega Vincenzo. La differenza non sta tanto nell’utilizzo o meno di questi sistemi, diffusi anche in occidente, ma nell’esistenza di un regolamento generale per la protezione dei dati che pone dei limiti e protegge i cittadini: una normativa che in Cina non esiste.
Le autorità cinesi sostengono che il riconoscimento facciale sia uno strumento necessario per prevenire la criminalità nel Paese. Ma l’artista Deng Yufeng cerca da anni di sensibilizzare il proprio pubblico sui rischi e l’impatto che ha sulla vita di tutti. Nell’ottobre del 2020 nella sua performance artistica, «Un movimento che scompare», ha cercato di eludere il sistema di sorveglianza tra le strade di Pechino. Movimenti a zig-zag e rivolgere il viso verso il basso, sono solo alcuni degli espedienti utilizzati da Deng e i dieci volontari reclutati su internet. Un percorso reso poi pubblico per aiutare le persone a muoversi nel complesso sistema di sorveglianza, ma da cui però resta difficile passare inosservati. «In questo momento sono sotto indagine», scrive l’artista raggiunto sui social network per poter raccontare la sua performance.
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