«Una patologia che segna tutti. Mai avrei immaginato di sentire un paziente al telefono dire: ‘Mi stanno per intubare, volevo avvisarti’. Una procedura di solito destinata a chi si trova in condizioni critiche e non è cosciente. Ma è successo, più di una volta. Per me è stato destabilizzante e fatico a raccontarlo». Vito Trinchieri, 62 anni, è medico infettivologo al Policlinico Umberto I di Roma. Di guardie notturne nella fascia oraria 20.00-8.00 ne ha fatte tante in carriera. È quello il momento in cui si rimane soli, la città dorme, nelle luci soffuse delle corsie si sentono i bip dei monitor e dalla cucina arriva l’odore pungente del caffè. Ma con la pandemia tutto è cambiato. Il virus ha costretto a subire e imparare, prima di rilanciare. E ha lasciato una certezza: questa professione non sarà più la stessa.
Prima l’infettivologo di guardia era responsabile dei vari reparti di Malattie Infettive, svolgeva le consulenze al DEA (Dipartimento di Emergenza e Accettazione) e in tutto l’ospedale. Oggi si è reinventato, adeguandosi a un preciso percorso del malato. Qualcuno è destinato al Pronto Soccorso Febbre. Altri, come il dottor Trinchieri, lavorano in unità subintensiva: «Un anno fa, l’arrivo di una patologia sconosciuta. All’improvviso ti ritrovi a sistemare caschi CPAP (ventilazione meccanica a pressione positiva continua, ndr) e altri supporti respiratori, a gestire quadri insidiosi, a chiederti come andrà a finire. Il destino delle mie notti è legato alle impennate nella curva dei casi. A marzo e aprile 2020 è stato terribile. Non c’erano strumenti, percorsi dedicati, presidi sufficienti. E non conoscevi la malattia. Le ore sembravano non passare mai, dallo stress della vestizione alla paura del contagio, che mi ha costretto a stare due mesi lontano dalla famiglia. Ora è diverso, Covid-19 è entrato nella nostra routine e sappiamo affrontarlo, nonostante aspetti ancora da chiarire».
Il medico racconta del rapporto con i pazienti. «La mascherina, la visiera e la tuta di protezione fanno perdere il contatto visivo. Allora il malato ti guarda negli occhi, ha imparato a leggerli. Li interpreta. Più di prima, la chiave è nell’approccio alla persona, che va rassicurata: conosce COVID-19, ne sente parlare ogni giorno e ha paura di morire. Quando gli metti il casco è terrorizzata, sa che il passo successivo sarà l’intubazione in rianimazione. ‘Un sorriso e una battuta valgono più di una compressa’, dico sempre agli specializzandi che lavorano con me. Ma che soddisfazione una volta che se lo levano. Quasi tutti piangono. E capisci perché ami questa professione».
Anche per un medico con esperienza le ore che precedono la guardia non sono più le stesse. «Sono meno tranquillo, so di andare ‘in trincea’. C’è un dispendio di energie fisiche e nervose maggiore. Basti pensare che lavoriamo a stretto contatto con i rianimatori, con cui una o due volte al giorno facciamo il punto della situazione. Un filo diretto che ci permette di individuare in maniera precoce pazienti critici, e di inviarli in terapia intensiva».
E la percezione del tempo? «La stessa, alcune notti riesci a riposare qualche ora, altre no. È cambiata l’atmosfera. Non c’è turno che dall’oblò delle stanze io non controlli di continuo monitor e saturimetri. Prima il reparto era ‘prevedibile’, un occhio esperto permetteva di valutare in breve tempo la situazione. Oggi l’imprevisto è dietro l’angolo. Anche il momento del caffè in cucina, la battuta sulla partita o il film in prima serata sono più rari. Il rapporto con il personale si è modificato. Mantenere il distanziamento e i vari presidi incidono, l’ambiente è meno rilassato».
Ma c’è un aspetto che a Malattie Infettive del Policlinico Umberto I neanche il COVID è riuscito a cambiare: «La tradizione della colazione a fine guardia è rimasta. Un riconoscimento per lo specializzando che mi ha supportato, e a volte sopportato, durante il turno. È bello rilassarsi, lasciar scivolare tensione e fatica davanti a cappuccino e cornetto».