«Se stiamo con te non possiamo controllare gli altri». In stato confusionale Francesco, 25 anni, osservava gli infermieri legargli mani e piedi nella sala emergenze del pronto soccorso di Bergamo. A pochi metri di distanza, due anni più tardi, nel pronto soccorso dell’ospedale di Bergamo sarebbe morta Elena Casetto, 19 anni, dandosi fuoco con un accendino nel tentativo di liberarsi dalle cinghie.
A tempi alterni, il fenomeno della contenzione solca le pagine dei quotidiani e riporta a galla il dibattito. A Roma il 28 novembre è morto all’ospedale San Camillo Abdel Latif, 26 enne tunisino rinchiuso dal 2 ottobre nel Cpr di Ponte Galeria. Dopo alcuni segnali di sofferenza psicologica, è stato trasferito a Ostia e infine all’ospedale romano. Le sue mani e i suoi piedi sono stati legati alle sponde del letto per tre giorni fino alla sua morte.
Secondo un report dell’istituto superiore di Sanità circa l’80% degli Spdc, i servizi psichiatrici di diagnosi e cura, fanno ricorso alla contenzione. Dei 320 reparti presenti in Italia, solo 21 hanno aderito alla politica del No Restraint, evitando l’uso di violenza all’interno delle strutture. Limitazioni che non sono solo meccaniche, ma ambientali e farmacologiche. Le sbarre alle finestre, le tapparelle bloccate, la sedazione eccessiva con psicofarmaci. Una serie di pratiche che, secondo le ricerche scientifiche, possono comportare effetti che oscillano dall’umiliazione sociale, lesioni, traumi, alla morte.
«Gli infermieri e i dottori mi hanno circondato. Hanno premuto il mio corpo sul letto con tutto il loro peso impedendomi di muovermi. Li pregavo di smetterla e che non avrei fatto niente, ma non mi credevano». Bloccati a un letto, gli incidenti sono frequenti. Anziani nelle rsa che rimangono incastrati nelle sponde, aggressioni. «Il giorno prima che accadesse a me una ragazza è stata legata al letto dopo essersi tagliata con un rasoio. Pochi minuti dopo è stata stuprata da un altro paziente finché gli infermieri non li hanno divisi».
Una tecnica di restrizione della libertà, la contenzione, che per legge è considerata l’ultima opzione. Eppure, nell’ospedale di Bergamo dove si trovava Elena Casetto, solo nel 2019 sono state effettuate 300 contenzioni su 86 pazienti. Nel 2013, durante un’audizione al Senato sul tema, il Comitato Nazionale di Bioetica ha definito «l’uso della forza una violazione dei diritti fondamentali della persona» e ha chiesto il suo superamento, «per riconoscere i pazienti come persone prima ancora che malati».
Dello stesso parere è Pietro Barbetta, professore associato di psicologia dinamica all’Università di Bergamo e direttore del Centro Milanese di Terapia della Famiglia. «Come la tortura, la contenzione è definita un crimine di pace. Non ho mai visto nessun paziente che dopo averla subita abbia riportato miglioramenti». Con la legge Mariotti del 1968, gli psichiatri diventarono veri medici, non più dei guardiani. «Eppure nella nostra democrazia, e nel campo psichiatrico, continua a sopravvivere un frangente totalitario. Si abusa della forza, prerogativa delle forze dell’ordine, e le strutture dei manicomi, a lungo criticate, vengono riproposte ancora oggi».
Un elemento chiave si trova nell’articolo 54 del Codice Penale, secondo il quale «Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona». Secondo Pietro Barbetta «stiamo distruggendo il pianeta. Come facciamo a dire che un paziente psichiatrico è più pericoloso di tutti gli altri? E soprattutto un pericolo non si risolve con la violenza perché la cura psichica necessità di tenerezza. Necessita di attenzione, non repressione».