Una nuova realtà, «un internet incarnato dove sei nell’esperienza, non solo la guardi». Così Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, il 28 ottobre scorso, ha presentato il Metaverso. Da quel momento in poi la società ha cambiato nome in Meta, che in greco significa ‘Oltre’. Il 13 dicembre Elon Musk, Ceo di Tesla e Space X, all’indomani della nomina del Time a ‘Person of the year’, twittava: «Space X sta iniziando un progetto per rimuovere Co2 dall’atmosfera e convertirla in carburante per razzi». E nel primo commento: «c’entra con Marte».
Scelte comunicative molto simili, che dipendono più dalla necessità di preservare patrimonio e potere, che dalle singole (e diverse) fasi economiche.
L’anno appena trascorso è stato uno dei più difficili per Zuckerberg. Prima le accuse per il ritardo nel silenziare Trump nei fatti di Capitol Hill, poi lo scandalo “Facebook Papers” e le inchieste seguite ai documenti divulgati dalla ‘whistleblower’ Frances Haugen, hanno scosso l’autorevolezza del re dei social network. Il valore dell’azienda – comunque in crescita nel 2021 – ha iniziato a scendere in autunno, salvo un rialzo tra novembre e dicembre dovuto proprio al rebranding e all’annuncio del Metaverso. A causa dell’utenza in calo per la prima volta in diciotto anni e dei profitti non all’altezza delle aspettative, poi, il 3 febbraio Meta ha visto crollare il 24% dell’intero valore di mercato. Una perdita di oltre duecentocinquanta miliardi di dollari in un solo giorno.
La fase negativa sembra dettata dall’oggetto stesso del business di Menlo Park. «L’attività di Zuckerberg è invasiva» dice Antonio Cocozza, professore di Comunicazione d’impresa e gestione delle risorse umane alla Luiss. «Gestisce dati fondamentali per qualsiasi azienda e player globale. La sua situazione è dovuta alla non chiarezza con i suoi utenti, che non sono stati tutelati come era lecito attendersi». In tali circostanze, il miraggio del Metaverso rappresenta un bel diversivo.
«Un pagliaccio, un genio, un uomo sempre al limite, un visionario, un industriale, un uomo di spettacolo, un mascalzone», così il Time ha definito Elon Musk nominandolo ‘Person of the year’. Il 2021 è stato infatti per il Ceo di Space X l’anno della consacrazione: è diventato l’uomo più ricco della storia, Tesla ha superato i mille miliardi di capitalizzazione e la Nasa lo ha preferito al competitor Jeff Bezos per riportare l’uomo sulla Luna. L’obiettivo di costruire il primo avamposto umano su Marte entro il 2025 è solo l’ultima trovata di una delle menti più celebrate del nostro tempo. La retorica è quella dell’uomo più ricco del mondo che vuole salvare l’intero genere umano.
Quella alla CO2, infatti, è una battaglia che il patron di Tesla si è intestato da tempo. Nel gennaio 2021 – sempre a mezzo twitter – aveva comunicato l’istituzione da parte della Musk Foundation del “XPrize Carbon Removal”, un premio da 100 milioni di dollari (il più alto di sempre) per chi svilupperà la migliore tecnologia per catturare le emissioni di anidride carbonica presenti nell’atmosfera. Per Giovanni Mori, ingegnere energetico e portavoce di Fridays For Future Italia, «bisognerebbe prima tagliare le emissioni. In una vasca da bagno che si sta riempiendo, prima di togliere l’acqua a secchiate bisogna chiudere il rubinetto. Assorbire la CO2 in eccesso avverrà in una fase successiva, tra 20 o 30 anni, quando avremo tagliato tutto il possibile. Oggi la priorità è ridurre le emissioni, qualsiasi altra soluzione è secondaria. E Musk questo lo sa». Marketing allora? «Sa anche quanto può fare bene il greenwashing in termini economici. Nessuno di noi, con probabilità che rasentano la certezza, vedrà Marte e, per il momento, non sembra nemmeno un bel posto in cui andare».
Due delle persone più facoltose e potenti della Terra, dunque, pur vivendo momenti diametralmente opposti in termini di reputazione, si giocano il presente nel futuro remoto. Con scelte comunicative ambiziose, la narrativa del progresso si è spinta al limite dell’immaginabile: la trasmigrazione dell’umanità verso un nuovo pianeta, o una nuova realtà. Che la loro comunicazione rasenti la fantascienza, in verità, torna molto utile a questi colossi per consolidare la loro influenza e accrescere (o salvare) i propri patrimoni.
Le logiche di mercato che seguono queste super potenze infatti non sono le stesse valide per gli altri player del mercato. «Questi ‘top incomes’ hanno rivoluzionato il modello economico» dice Michele Raitano, professore di politica economica alla Sapienza. «Sono persone con un talento particolare, emerse grazie alle proprie capacità, che hanno accumulato patrimoni colossali. Sono i cosiddetti ‘winner takes all’, vincere in un momento favorevole garantisce il controllo sull’intera fetta del mercato».
Sfruttando questa posizione dominante si può impedire che il mercato torni contendibile e concorrenziale. Dopo il meritato trionfo iniziale, restano i migliori impedendo agli altri di entrare in competizione. «Un potere così grande è difficile da regolare per l’autorità pubblica – continua Raitano – monopoli così imponenti di fatto sfidano il potere politico». L’autoregolamentazione, gli sgravi e l’enorme elusione fiscale limitano la libera concorrenza. La natura globale del fenomeno impedisce l’applicazione delle varie legislazioni nazionali e non esiste un legislatore internazionale che possa regolare queste attività.
Così «nasce quella che io ho chiamato ‘coopetition’: autorità statali abituate a competere fra loro devono imparare a collaborare per risolvere questioni che sfuggono al potere dei singoli ordinamenti territoriali» riprende Antonio Cocozza. La necessità di far fronte alla pandemia, o anche al cambiamento climatico, ha accelerato questo processo e ha reso più elevato il rischio che le organizzazioni internazionali tentino la regolamentazione.
Tutto allora si sposta sul terreno della comunicazione. In questo, «il futuro è fondamentale, è il loro campo di gioco» continua Cocozza «pongono un obiettivo che diventa meta-obiettivo: costruire il futuro». «In verità sono poco più che ipotesi. Marte è lontano, il Metaverso è avvolto da grandi punti interrogativi, sulla realizzazione ma anche sulla compatibilità con il sistema dei diritti e valori democratici». La promessa del progresso, però, serve a intestarsene la paternità. Così facendo, le Big Tech vogliono apparire «indispensabili al raggiungimento di questi obiettivi ultraterreni, ammesso che essi siano raggiungibili». E questo, almeno nell’immediato, rabbonisce politica, mercati e opinione pubblica mondiale.
Più difficile valutare gli effetti di simili strategie nel lungo periodo. Ci vorranno anni prima di poter dire se puntare tutto il piano comunicativo su nuove realtà ed esperienze extraterrestri avrà portato benefici. Magari si scoprirà che le Big Tech, per migliorare la propria reputazione, avrebbero fatto meglio ad affrontare i problemi che affliggono il mondo che ancora abitiamo, combattere le disuguaglianze. Magari l’utenza le benedirà, passeggiando nel Metaverso oppure ammirando uno splendido tramonto marziano.
Per il momento solo sappiamo che, per dominare il presente, bisogna puntare a colonizzare il futuro.
Leggi anche: Non voglio una fede, voglio un token