«Mi piacciono le persone per le loro debolezze e difetti. Quando le fotografo non è come se fossi lì ad esaminarle con una lente di ingrandimento, come un osservatore freddo e scientifico. È una cosa molto fraterna, ed è bellissimo far luce su quelle persone che non sono mai sotto i riflettori». Al centro della fotografia di Robert Doisneau, uno dei fotografi più prolifici del Novecento, ci sono le persone con le loro emozioni.
I bambini che animano le strade delle periferie parigine, gli operai al lavoro nei sobborghi, le ragazze vestite a festa di domenica mattina, i sorrisi sui volti degli abitanti de la Rue du Transvaal, il venditore ambulante di verdure ritratto ne Les Oignons: nessuno sfugge allo sguardo attento di Doisneau. Personaggi e storie di una Parigi in bianco e nero, a tratti malinconica, in mostra fino al 4 settembre nelle sale del museo dell’Ara Pacis di Roma. Oltre 130 le stampe ai sali d’argento provenienti dalla collezione dell’Atelier Robert Doisneau a Montrouge, in cui il fotografo ha stampato e archiviato le sue immagini per sessant’anni, lasciando un’eredità di quasi 450mila negativi.
Il grande maestro, considerato insieme a Henri Cartier-Bresson uno dei fondatori del fotogiornalismo, descrive la quotidianità delle strade parigine in un racconto visivo in cui, alla profonda umanità, si mescola sempre una nota di umorismo. Nelle sue immagini si fondono situazioni che fanno sorridere (come Le Fox-Terrier au Pont des Arts del 1953, realizzata con la complicità di alcuni suoi amici che lo aiutano a costruire l’immagine di un pittore che dipinge un nudo e un passante con un fox terrier che si ferma apposta per osservarlo), esistenzialismo ed umanismo, dove Doisneau non si pone soltanto come regista dei suoi scatti o semplice testimone del suo tempo. Dietro la sua ricerca umanistica c’è molto di più: il suo sguardo si posa sulla società in cui vive non per studiarla, ma per penetrare il mistero della psicologia delle persone che la compongono. Sempre mantenendo una certa distanza fisica, «rispettosa e “dettata dalla timidezza”. Pur non escludendo l’empatia, questa timidezza all’inizio gli impedisce di guardare in faccia le persone, di avvicinarle, per cui racconta, con la simpatia che lo caratterizza, di aver cominciato sviluppando una visuale raso terra, [fotografando] dettagli del manto stradale», precisa il curatore della mostra Gabriel Bauret, servendosi delle parole di Sylvain Roumette, scrittore e amico intimo del fotografo.
Ma per Doisneau, la fotografia è stata prima di tutto uno strumento di evasione dalla sua infanzia travagliata, segnata dalla morte della madre quando era soltanto un bambino e dalla presenza-assenza di un padre non particolarmente affettuoso. Ragazzino dal carattere ribelle, che aveva un rapporto problematico con la scuola e la disciplina, nel 1925 frequenta l’École Estienne di Parigi, dalla quale uscirà insoddisfatto della sua formazione tecnica e «con poche risorse per affrontare la modernità». Infatti, sarà il periodo di apprendistato nello studio del fotografo André Vigneau, nel 1931, a rivoluzionare il suo metodo fotografico e a trasmettergli l’importanza della composizione delle immagini, in cui il dettaglio fa la differenza. Tuttavia, durante la Resistenza a Doisneau torneranno utili le conoscenze in materia di incisione, acquisite all’École Estienne, per falsificare carte e documenti ufficiali e poter mantenere la propria famiglia. Anche se l’attività di fotografo, all’inizio prevalentemente su commissione, rimarrà la sua principale fonte di guadagno.
L’esposizione vede l’alternanza tra opere iconiche, foto realizzate su commissione e immagini che rappresentano la sua ricerca fotografica personale. Come spiega Bauret: «da un lato, ci sono le foto “organizzate” o messe in scena e dall’altro, ci sono le foto “trovate per caso”, per cui Doisneau aspettava in strada che succedesse qualcosa da ritrarre nei suoi scatti, come un pescatore che, con la sua lenza, aspetta in riva al fiume. Uscire, posizionarsi per strada e aspettare, non perché fosse un fotografo paesaggista, ma perché costruiva le sue immagini servendosi dell’umanità. Chiaramente, con questo sistema poteva anche capitare che non abboccasse nessun pesce e che Doisneau se ne tornasse a casa frustrato per non aver trovato nulla».
Tra le cosiddette “foto organizzate” vi è lo scatto simbolo della produzione di Doisneau: Le baiser de l’Hôtel de Ville, il bacio appassionato di una giovane coppia, un’immagine commissionata dalla rivista americana Life nel 1950. La coppia, indifferente alla folla dei passanti e al rumore del traffico parigino, rappresenta la libertà di vivere e di baciarsi per strada nella Parigi del Dopoguerra. Come racconta Bauret, «questa foto fu una messa in scena, nel senso che Doisneau si portò dietro due attori con cui girò per le strade di Parigi per realizzare lo scatto. Sebbene all’inizio non fosse stata valorizzata, più tardi divenne un’immagine davvero iconica».
Tanti anche i ritratti realizzati da Doisneau su commissione: pittori, scrittori, cineasti, attori e scienziati. Singolare lo scatto Les pains de Picasso (1952), in cui Doisneau raffigura il celebre artista divertito davanti a delle forme di pane appoggiate sul tavolo, in sostituzione delle sue mani.
Rispetto ad altri fotografi, Robert Doisneau ha sempre concentrato la sua attenzione sulla capitale francese e le sue periferie: preferiva perdersi nella sua metropoli piuttosto che esplorare territori lontani. «Ha persino confessato di sentirsi a disagio quando, per via di qualche commissione, è stato costretto ad allontanarsi dal suo universo», spiega Bauret. Nel 1960, il fotogiornalista aveva realizzato un reportage negli Stati Uniti su commissione di due grandi testate americane: un lavoro per il quale aveva anche abbandonato il bianco e nero a favore del colore. Infatti Doisneau collabora non solo con la stampa, ma anche con il mondo della pubblicità: fotografo instancabile, raramente si concede una pausa e i suoi archivi sono una fonte inesauribile di storie e personaggi incontrati nel corso della sua vita.
Nella sua ricerca fotografica, si è sempre circondato di validi complici che condivideranno con lui soprattutto la passione per le lunghe passeggiate nelle banlieues parigine. Con lo scrittore Jacques Prévert, conosciuto nel 1947, instaura una sorta di affinità spirituale che, ben presto, si trasforma in profonda amicizia. «Addirittura, nel realizzare alcune immagini, Doisneau già sapeva che le avrebbe mostrate al suo amico», racconta Bauret. Ancora, con lo scrittore Blaise Cendrars, conosciuto ad Aix-en-Provence nel 1949, quando a Doisneau viene commissionata la realizzazione di un ritratto per un supplemento del quotidiano Le Figaro. I reportage fotografici che raccontano la realtà dei quartieri poveri e malfamati di Parigi affascinano molto Cendrars, al punto di pubblicare La Banlieue de Paris (1949), in cui le immagini del maestro dialogano con i suoi testi. Infine, con il giornalista Robert Giraud frequenta i vari bistrot della capitale: un’esperienza da cui, nel 1983, nascerà il libro realizzato a quattro mani, Le vin des rues.
Se la strada è sempre stata fonte inesauribile di ispirazione, «oggi […] è diventata un territorio ostile alla fotografia e la scomparsa di ogni forma di rappresentazione di questo formidabile teatro conferisce ancora più valore all’opera di Doisneau e a quelle dei fotografi della sua generazione, che hanno sfruttato e valorizzato le risorse umane della città». In questo senso, le foto di Doisneau non sono solo immagini in sé, ma immortalano la storia dell’umanità e delle sue emozioni, appartenenti ad un’epoca che non tornerà mai più.
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