‘Cacciare gli indigeni per salvare la biodiversità: la proposta Onu alla COP15’ è il titolo di un articolo pubblicato sul sito Byoblu.com, che si definisce «testata giornalistica» che produce «informazione indipendente, libera da ogni condizionamento politico, economico e finanziario, coinvolgendo nel progetto editoriale ogni cittadino-ascoltatore che sostiene Byoblu».
L’articolo fa riferimento alla quindicesime Conferenza ONU sulla Biodiversità (COP15) in corso a Montréal, Canada, riunita nella seconda parte della Convenzione sulla diversità biologica (CBD) dal 7 al 19 dicembre. I 196 Paesi partecipanti hanno lo scopo di finalizzare i negoziati per l’adozione di un nuovo Codice Globale sulle Biodiversità (Global Biodiversity Framework).
L’articolo in esame parla di «193 Paesi aderenti all’ONU», in verità, alla COP15 partecipano non solo gli Stati membri delle Nazioni Unite, ma tutti quelli che hanno sottoscritto o aderito alla Convention on Biological Diversity: in tutto 196 Paesi.
Una questione affrontata dalla COP15 è quella dell’istituzione di nuove aree protette per salvaguardare la biodiversità, che dovrebbe comprendere «il 30 per cento a livello globale delle aree terrestri e delle aree marine» entro il 2030, condensata nell’obiettivo del ‘30×30’. Questo target è menzionato anche nell’articolo di Byoblu.
«A dividere e far discutere la Cop15 è l’obiettivo del 30×30. Questo slogan, che sa più di offerta da supermercato che di difesa dell’ambiente, rappresenta la proposta di più alto profilo della conferenza. Entro otto anni, un terzo del Pianeta Terra dovrà diventare area protetta. Vaste aree di terra e di mare non saranno quindi più accessibili all’uomo. Vietata qualunque minima modifica nonché, vietato entrare. […] Se area protetta significa che nessun uomo potrà accedervi, figuriamoci viverci.»
L’obiettivo 30×30 è contenuto nella prima bozza del Post-2020 Global Biodiversity Framework al target numero 3.
«Target 3: Garantire che almeno il 30 per cento delle aree terrestri e delle aree marine, soprattutto le aree di particolare importanza per la biodiversità e il suo contributo alle persone, siano conservate attraverso un sistema di gestione efficace ed equa, ecologicamente rappresentativa e attraverso sistemi di aree protette ben collegati e altre misure di conservazione efficaci basate sulle aree e integrate in più ampie aree terrestri e marine»
La definizione di “area protetta” adottata dalla Convention on Biological Diversity (CBD) si trova all’Articolo 2 della Convenzione: «una zona geograficamente definita, designata o regolamentata e gestita per conseguire obiettivi di conservazione specifici». Un’ulteriore specificazione sui principi attraverso cui gestire le aree protette si trova sotto l’Articolo 8 in cui le Parti sono incoraggiate a
- Istituire un sistema di zone o zone protette in cui devono essere adottate misure speciali per la conservazione della diversità biologica;
- Elaborare, se necessario, orientamenti per la selezione, l’istituzione e la gestione di aree o aree protette in cui è necessario adottare misure speciali per la conservazione della diversità biologica;
- Regolamentare o gestire le risorse biologiche importanti per la conservazione della diversità biologica, sia all’interno che all’esterno delle aree protette, al fine di garantirne la conservazione e l’uso sostenibile;
- Promuovere uno sviluppo sostenibile e rispettoso dell’ambiente nelle zone adiacenti alle zone protette al fine di promuovere la protezione di tali zone;
- Cooperare per fornire sostegno finanziario e di altro tipo alla conservazione in situ, in particolare ai Paesi in via di sviluppo.
All’interno dei documenti ufficiali non figura alcuna menzione sulla inaccessibilità per l’uomo, o per i popoli indigeni, alle zone dichiarate aree protette. L’istituzione di un’area protetta non ha come immediata e diretta conseguenza la cacciata dei popoli indigeni come, invece, sostiene l’articolo di Byoblu.
«In tutti questi Stati, dove la biodiversità prolifera, le aeree interessate dal 30×30 sono da secoli conservate da una piccola parte della popolazione, secondo le stime circa il 5%: gli indigeni. Gli uomini e le donne che hanno deciso di vivere in simbiosi con la natura, per l’ONU non sono più graditi» continua Byoblu.
Le stime sulla percentuale di indigeni interessati dalla misura sono corrette. Secondo il Survival International, movimento mondiale per i popoli indigeni, raggiungere l’obiettivo di rendere il 30% delle aree terrestri e marine area protetta entro il 2030 avrebbe un impatto su circa 300 milioni di persone. Il dato è stato calcolato a partire da stime pubblicate sulla rivista Nature, secondo cui, se venisse raggiunto l’obiettivo fissato dalla proposta Half Earth della E.O. Wilson Biodiversity Foundation, di far diventare area protetta il 50% della superficie globale (terrestre e marina), il progetto andrebbe a interessare circa 760 milioni di persone, che si aggiungerebbero ai 247 milioni di individui che già oggi abitano in queste aree. Si riporta che sul Pianeta vivono 476 milioni di persone appartenenti ai popoli indigeni, che rappresentano, quindi, quasi il 6% della popolazione mondiale.
La seconda parte della frase riportata dall’articolo di Byoblu, invece, contiene un giudizio espresso da chi scrive e non ha alcun riscontro in una netta presa di posizione da parte della COP15. La Convenzione non ha mai definito sgradita la presenza delle comunità indigene, con cui cerca un rapporto di scambio e collaborazione. All’interno della bozza del Post-2020 Global Biodiversity Framework, i popoli indigeni vengono menzionati 14 volte. La concezione degli indigeni da parte degli Stati aderenti alla Convenzione emerge in modo chiaro.
Nella parte relativa al collegamento con l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile si legge:
«La theory of change [alla base di] questo progetto riconosce la necessità di un adeguato riconoscimento della parità di genere, dell’empowerment delle donne, dei giovani, di approcci gender-responsive e della piena ed efficace partecipazione delle popolazioni indigene e delle comunità locali all’attuazione di questo quadro».
Negli obiettivi da raggiungere entro il 2030 rientrano:
«Target 20. Garantire che il sapere, comprese le conoscenze tradizionali, le innovazioni e le pratiche, delle popolazioni indigene e delle comunità locali con il loro libero, previo e informato consenso, guidi il processo decisionale per una gestione efficace della biodiversità, consentendo il monitoraggio e promuovendo sensibilizzazione, educazione e ricerca»; «Target 21. Garantire una partecipazione equa ed efficace al processo decisionale relativo alla biodiversità ai popoli indigeni e alle comunità locali, e rispettare i loro diritti su terre, territori e risorse».
Nel testo viene anche sottolineato come l’efficacia e il raggiungimento degli obiettivi del Global Biodiversity Framework passino attraverso una governance integrata realizzabile grazie alla partecipazione di attori che vadano oltre i governi nazionali: «governi subnazionali, città e altre autorità locali (inclusi attraverso la Dichiarazione di Edimburgo), organizzazioni intergovernative, organizzazioni non governative, popolazioni indigene e comunità locali».
Più avanti nell’articolo Byoblu scrive: «Ovviamente per raggiungere questo obiettivo i Paesi interessati avranno bisogno di sostegno economico. Nel caso in cui in Italia nessuna zona sarà interessata dal 30×30, questa dovrà fornire un tot di miliardi ad esempio alla Tanzania. Il fondo richiesto in toto dalle Nazioni Unite per la realizzazione del progetto ammonta a 384 miliardi all’anno».
Il testo della Convenzione non ha istituito un fondo per la realizzazione del 30×30 e non sono state definite zone precise in cui istituire nuove aree protette. La cifra di 384 miliardi di euro all’anno non è esatta ed è decontestualizzata. Questi soldi fanno riferimento a una stima elaborata dal report State of Finance for Nature 2022 realizzato dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), secondo cui, per finanziare efficaci Nature-based Solutions (soluzioni che forniscono molteplici benefici ambientali, sociali ed economici, intrecciando la riduzione del rischio di disastri, la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici, con il ripristino e la protezione della biodiversità e degli ecosistemi) occorrerebbe arrivare a investire circa 384 miliardi di dollari all’anno entro il 2025, contro gli attuali 154 milioni di dollari spesi annualmente.
L’ultima parte dell’articolo di Byoblu è intitolata «Le contestazioni della Cop15».
La bozza del testo prenderà forma definitiva entro il 19 dicembre, non entro il 17 come sostiene Byoblu, che scrive: «Per alcuni l’obiettivo non è abbastanza ambizioso, meglio il 50%». Questo target è stato promosso dalla E.O. Wilson Biodiversity Foundation ma non è stato oggetto di definizione da parte della CBD.
«Chissà quante popolazioni indigene verranno separate dalla propria terra con il 30×30. Gli Stati Uniti dal canto loro sono più che favorevoli alla misura, ma non essendo firmatari del primo accordo sulla biodiversità, non ne faranno parte» continua Byoblu.
Gli Stati Uniti non sono firmatari della Convenzione, anche se nessuna autorità statunitense ha affermato che il Paese non ha intenzione di sottoscriverla in futuro. Il Ministero statunitense per gli oceani e gli affari scientifici e ambientali internazionali, la biodiversità e le risorse idriche si è rivolto alla COP15 per ribadire che «le comunità indigene, rurali e urbane – insieme a scienziati, giovani e gruppi storicamente emarginati – devono essere leader e partner nel raggiungimento di questo obiettivo. Chiediamo che il quadro debba anche utilizzare un approccio che coinvolga tutta la società, in modo che tutti – in particolare le popolazioni indigene e le comunità locali – siano impegnati nella conservazione della natura, sia nella pianificazione che nell’attuazione. E niente di meno».
L’articolo di Byoblu conclude: «L’Unione Europea invece si chiede cosa si potrà fare nell’aree protette, proponendo che le industrie estrattive possano accedervi, purché non violino la biodiversità. Come le lobby della trivellazione possano aiutare l’ambiente continuando ad estrarre risorse è da capire».
L’Unione Europea, rappresentata dal Commissario per l’Ambiente, gli Oceani e la Pesca Virginijus Sinkevičius, e dal Dott. Ladislav Miko, in rappresentanza della Presidenza ceca, non ha proposto in via ufficiale di far accedere le industrie estrattive nelle aree protette.
Critiche sono state rivolte all’atteggiamento dell’Unione Europea, chiedendo un maggior impegno per l’approvazione di un testo che sia il più ambizioso possibile. Il Guardian riporta anche alcune parole pronunciate dal Dott. Ladislav Miko: «Non far accedere alcuna industria estrattiva sulla base del 30×30 è ‘poco realistico’. Egli ha affermato che vi sarebbe una valutazione dell’impatto ambientale da valutare se l’attività in questione danneggiasse la biodiversità. ‘In generale, è escluso, ma dipende dallo status dell’area protetta’». Le affermazioni di Miko riportate dal Guardian non rappresentano una proposta formale della Commissione europea volta a permettere azioni estrattive nelle aree protette.
Dal confronto dell’articolo di Byoblu.com con i documenti ufficiali e gli interventi dei rappresentanti dei paesi che prendono parte alla Convenzione sulla Diversità Biologica, non emerge l’esistenza di una proposta della COP15 di cacciare gli indigeni dalle loro terre come conseguenza diretta dell’istituzione di nuove aree protette in accordo con l’obiettivo 30×30, come invece il testo pubblicato sul sito sosteneva. Non viene neanche riscontrato un atteggiamento ostile dell’ONU e della COP15 nei confronti delle popolazioni indigene, il cui imprescindibile contributo nel processo decisionale per tutelare la biodiversità è più volte ribadito.
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