Si accendono le luci, un volto familiare ci saluta con fare bonario, canzoni più o meno sensate iniziano a susseguirsi e noi, comodi sui nostri divani, tiriamo fuori il repertorio di battute caustiche cui ricorriamo solo nelle occasioni speciali. Il “c’era una volta” che fa da incipit a un racconto mutevole ma che conserva un che di rituale. È Sanremo. Sensazionale per pochi, tollerato da molti, inviso ai più. Almeno sulla carta. Perché poi alla prova dei fatti mezza nazione si ritrova davanti allo schermo, parte di un collettivo identitario che, più dell’inno o delle feste nazionali, ci fa sentire parte di una stessa entità.
La capacità coagulante di Sanremo è data dal suo essere una narrazione, sia pure edulcorata e parziale, della società. Dalla prima edizione del 1951 condotta da Nunzio Filogamo di fronte al pubblico raccolto intorno a tavolini, in stile vecchio cabaret, passando per l’approdo in Rai, per i grandi successi internazionali come “Volare” e le disgrazie, come morte di Tenco, fino alle apparizioni di generi di nicchia come l’indie, il festival è stata la trama su cui si è tessuto il racconto popolare della società italiana e della sua evoluzione. In quanto prodotto di cultura popolare Sanremo ha attinto al repertorio tipico della tradizione. Nei testi delle canzoni riferimenti, più o meno riconoscibili, alle fiabe, espressione principale della cosiddetta letteratura popolare.
Secondo la storia della letteratura, le fiabe, pur provenienti da regioni geografiche e culture diverse, hanno tutte caratteristiche comuni: sono tramandate oralmente, spesso recitate a mo’ di cantilena, e contano di personaggi fantastici che incarnano di particolari vizi o virtù umane. Potrebbero essere definite un canovaccio della storia dell’umanità. Le variazioni minime tra fiabe provenienti dal bacino del Mediterraneo e fiabe provenienti dal medio-oriente dicono qualcosa sulle specificità dell’ambiente culturale che le ha create, non sull’uomo.
Ecco, potremmo associare il Festival a una fiaba che dice qualcosa della temperie culturale da cui deriva, ma si allinea al racconto dell’umano che si evolve. In questo senso i riferimenti all’immaginario fiabesco comune servono da raccordo.
Tra sacro e profano
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, con l’influenza democristiana sul Festival, i riferimenti ai personaggi della cristianità e alle storie contenute nella Bibbia animano decine di testi. L’analfabetismo era elevato – all’epoca più di un italiano su dieci era analfabeta- e spesso l’unico prodotto letterario con cui ci si era confrontati era il testo sacro. Così mente il maestro Manzi insegnava agli italiani a leggere e scrivere, Sanremo li educava alla musica utilizzando le canzoni nello stesso modo in cui, durante il medioevo, le vetrate delle chiese avevano reso noti ai fedeli gli episodi più importanti della Bibbia. Da quella lezione collettiva sono stati estratti alcuni elementi che si sono cristalizzati nella tradizione del Festival tanto da spingere artisti anche molto distanti tra loro a riprenderli e inserirli nelle loro canzoni: da Sergio Endrigo (L’arca di Noè) a Lucio Dalla (4 marzo 1943), da Eros Ramazzotti (Terra Promessa) a Elio e le Storie Tese (Vincere l’odio) non c’è genere o cantante che si sia sottratto alla regola.
Nel 1970 Endrigo porta sul palco dell’Ariston L’arca di Noè una canzone leggera che ripercorre i punti salienti del racconto del diluvio universale. Quarantasei anni dopo è la giovane Annalisa a presentare in gara Diluvio Universale. Peraltro il racconto di un catastrofico nubifragio in grado di inondare la terra spazzando via tutti gli esseri viventi tranne pochi eletti che riescono a sfuggire mettendosi in salvo su una nave è un motivo letterario che accomuna la cultura giudaico-cristiana ad altre, come ad esempio quella orientale. Utnapishtim, un eroe dell’epopea di Giglamesh, è costretto a salvare se stesso e la sua famiglia imbarcandosi in un’arca capace di sfuggire a un’inondazione globale. Sorte che è facile sovrapporre a quella di Noè.
Accanto a storie riprese dalla tradizione religiosa le canzoni sanremesi contengono anche riferimenti al patrimonio letterario profano. «Biancaneve vuoi dirmi chi è?/ Lo sai anche tu c’entra poco con me/ Forse una strega mi sento semmai/ Si addice di più lo pensi anche tu» cantano all’Ariston Alexia e Mario Lavezzi nel 2009. L’anno successivo è Marco Mengoni, fresco della vittoria al talent X-Factor, che porta sul palco un testo con chiari riferimenti ad Alice nel Paese delle Meraviglie. «Sono un re matto/ Cambio spesso regole/ Non perdo mai», intona con il suo timbro cristallino. Nel 2019 sono addirittura due i brani in gara che contengono riferimenti all’immaginario fiabesco. Irama interpreta un testo che parla della storia di Linda, la ragazza dal «cuore di latta». «Così cercando di salvarla /A sedici anni il suo papà le regalò un cuore di latta/ Però rubò il suo vero cuore con freddezza/ In cambio della vita», recita una delle strofe e il pensiero corre all’uomo di latta del Mago di Oz. Max Gazzè, invece, regala agli ascoltatori la malinconica leggenda di Cristalda e Pizzomunno, amanti separati dall’intervento di malvage sirene e destinati a rincontrarsi solo una volta ogni 100 anni. «Io ti aspetterò/ Fosse anche per cent’anni!/ Si dice che adesso,/ E non sia leggenda,/ In un’alba/ D’agosto/ La bella Cristalda/ Risalga/ Dall’onda/ A vivere ancora/ Una storia/ Stupenda».
Ecco che quei fili invisibili che tengono unite le comunità umane oltre le legittime divergenze culturali si riannodano nella competizione canora della città dei fiori.
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