Via Mario Fani, angolo con Via Stresa. Sono le ore 9 di mattina. Il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, si sta dirigendo a Montecitorio, accompagnato dalle due macchine della scorta. Si vota la fiducia al governo Andreotti, nato dai frutti degli sforzi di Moro e Berlinguer per far avvicinare i due partiti di massa più importanti, DC e Partito Comunista. Per la prima volta, infatti, i comunisti appoggeranno esternamente un governo guidato da un presidente democristiano. “Non si può governare con il solo 51%” ripete nei mesi precedenti Moro.
Il tentativo finisce nei pressi dello STOP posto al termine di via Mario Fani. Un’autovettura, una Fiat 128, precede le due macchine presidenziali. Si ferma facendosi tamponare. Al momento dell’impatto, dal bar di fronte al luogo dell’incidente, escono con indosso dei costumi da avieri i terroristi delle Brigate Rosse. Fanno fuoco, eliminando la scorta e lasciando in vita l’onorevole Moro che viene poi preso in consegna e portato via in macchina. Muoiono sul posto tutti in cinque agenti presenti sul campo: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Francesco Zizzi e Giulio Rivera.
Sono le 9.10 del 16 marzo. La storia politica italiana prende una svolta. Macchiata di sangue. Insieme a Miguel Gotor, storico e assessore alla cultura del Comune di Roma, abbiamo ripercorso le dinamiche del sequestro cercando di capire quali aspetti della vicenda sono tutt’ora sconosciuti a distanza di quarantacinque anni.