450 morti e oltre 4000 feriti, più della metà sono civili. Il bilancio delle Nazioni Unite sulla guerra civile scoppiato in Sudan lo scorso 15 aprile è tanto drammatico quanto parziale. Le autorità avvertono infatti che le cifre reali potrebbero essere ben più alte di quelle accertate.
Dopo dieci giorni di combattimenti il paese ha appena attraversato il secondo dei tre giorni di tregua dichiarata dopo la mediazione degli Stati Uniti tra l’esercito regolare del Presidente, il generale Abdel Fattah al Burhan, e le Forza di Supporto Rapido, la formazione paramilitare guidata dal vicepresidente Mohamed Hamdan Dagalo, noto anche come Hemedti. Una tregua più stabile dei tentativi precedenti, subito naufragati nel sangue, ma sempre appesa a un filo. Le notizie di esplosioni nella capitale Khartoum non si sono fermate e secondo alcune fonti gli scontri si sarebbero addirittura inasprite in alcune zone, soprattutto intorno all’aeroporto.
Nei giorni scorsi i paesi europei, tra cui l’Italia, hanno provveduto all’evacuazione del personale diplomatico e dei propri concittadini dal paese in guerra. Il Boeing 767 dell’aeronautica Italiana con a bordo i nostri connazionali evacuati dal Sudan via Gibuti è atterrato lunedì sera a Ciampino, accolto dal ministro degli Esteri Antonio Tajani. «Il pericolo è che ora che gli occidentali sono stati evacuati i due generali in guerra possano ritenere di avere mano libera negli scontri». È il timore di Michele Usuelli, medico ed ex consigliere lombardo di Più Europa, che si trovava a Khartoum con Emergency ed è tra gli italiani rientrati lunedì sera.
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Il giorno in cui è scoppiato il conflitto, Usuelli era a dirigere il centro pediatrico dell’ospedale installato all’interno del campo profughi appena fuori da Khartoum, che ospitava oltre 600.000 sfollati interni causati soprattutto dal conflitto col Sud Sudan e dagli strascichi della guerra civile che ha dilaniato la regione del Darfur, nell’ovest del paese. «Il sabato in cui è scoppiato il conflitto abbiamo cominciato a sentire esplosioni e a vedere colonne di fumo», racconta Usuelli. «Abbiamo subito evacuato il centro pediatrico. La clinica in cui lavoravo è stata chiusa subito perché era impossibile raggiungerla in sicurezza, mentre gli altri ospedali a Khartoum e sulla costa e in Darfur sono ancora in funzione. Io, non essendo specializzato in cardiologia (l’attività principale dell’Ospedale più grande gestito da Emergency) ho avuto meno difficoltà a rispondere alla proposta di evacuazione, ma oltre 40 colleghi, soprattutto italiani, sono ancora lì e lavorano “protetti” solo dalla reputazione di Emergency, non abbiamo guardie armate. Nessuna delle due fazioni si è mai permessa di entrare nei nostri ospedali.
Un conflitto nato da una situazione interna già critica, segnata dalla crisi economica e sanitaria. «Dieci anni fa, quando sono andato per la prima volta in Sudan, la banconota più piccola era uno scellino sudanese, oggi è da 200. L’economia era al collasso già da tempo». Le scene viste durante il viaggio verso l’aeroporto sono ancora impresse nella mente del medico italiano. «Abbiamo visto code interminabili alle pompe di benzina e nei pochi negozi aperti. Anche le banche sono chiuse, quindi non c’è liquidità. Nel paese mancano acqua, elettricità e viveri, uscire di casa è pericoloso soprattutto nelle città dove i combattimenti sono più aspri, e può essere anche frustrante perché i negozi aperti sono pochi e vuoti».
Secondo le stime delle Nazioni Unite solo nella giornata di martedì oltre 4000 profughi erano arrivati in Sud Sudan e 270.000 sono pronti a varcare il confine con il vicino Chad, innescando una nuova ondata migratoria verso il Mediterraneo. A questo si aggiungono i timori per le possibili fughe di campioni di virus come poliomielite e morbillo da un laboratorio caduto in mano ai ribelli, oltre che per la notizia che alcuni ministri dell’ex dittatore Al Bashir, attualmente confinato in un ospedale sotto il controllo dell’esercito regolare, sono fuggiti dal carcere in cui si trovavano. Una situazione destinata a durare visto che, come ha affermato l’inviato speciale delle Nazioni Unite per il Sudan, Volker Perthes. «Le parti non sono interessate a negoziare».