«Non ho fatto la storia e decisamente non sono un angelo», dice Gianni Letta. Gli anni passati da giornalista sono ormai lontani in confronto alle carriere accennate dai praticanti della scuola di giornalismo Luiss di fronte a lui. Le strette di mano sono numerose, nessuno escluso. Al centro dell’emiciclo di studenti che lo circondano, l’ex sottosegretario è rapido ed efficace a riassumersi in due sole parole: «Sono abruzzese».
Classe 1934, a dare origine a Gianni Letta è la città di Avezzano, un piccolo paese della provincia di L’Aquila. Con un padre avvocato e uno studio legale in casa, la famiglia gli consentiva di intraprendere una strada di vita già battuta. Durante i primi anni di liceo, avviene però la virata. Iniziata la scuola, assumo il ruolo di «corrispondente di un piccolo giornale di provincia. All’epoca non eravamo professionisti, eravamo spesso dei personaggi pubblici che si incaricavano di dare notizie ai quotidiani e facevano altri lavori».
La comunicazione non era facile, in particolare da una zona come l’entroterra abruzzese. Niente telefoni e mail, nemmeno un fax. «Erano gli anni Cinquanta. Gli articoli viaggiavano verso Roma all’interno del Fuorisacco, borse rosse che i giornalisti consegnavano ai postini e che dovevano essere portate a destinazione il prima possibile». Se la notizia era urgente, non c’era però altro modo. Si alzava la cornetta del telefono pubblico e si dettavano le parole, una per una, allo stenografo.
La corrispondenza locale continua per anni con piccoli articoli di notizie di provincia fino al 6 settembre 1955. «A Villa San Sebastiano, un comune poco distante da casa mia, ci fu una frana. 4 morti, numerosi feriti e più di 300 sfollati su neanche 600 abitanti. Presi la macchina fotografica e un taccuino. Con il materiale corsi in macchina lungo strade che ancora dovevano essere costruite per raggiungere il giornale. Quello fu il giorno in cui il mio nome apparì per la prima volta in prima pagina».
Niente più collaborazioni saltuarie, era il turno di scoprire la città. Inviato a L’Aquila, ancora un giovane «inesperto e provinciale», Gianni Letta scopre per la prima volta una redazione. «I miei colleghi erano invidiosi perché la mia provenienza urtava la loro sensibilità. I conflitti territoriali erano molto forti ed io venivo da un luogo per loro quasi sconosciuto».
Con il soprannome di «pupo Gilè, le iniziali del mio nome», Letta trascorre meno di un anno nel capoluogo abruzzese prima di trasferirsi a Roma, il territorio della politica e della classe dirigente. Gli è necessario poco tempo prima di entrarvi a far parte. È infatti nel 1973 che assume la direzione del giornale Il Tempo, mantenuta poi fino al 1987. «Un periodo bellissimo in cui potei fare davvero il quotidiano che volevo», ricorda Letta. «Tutto grazie a quell’imprenditore illuminato che fu Carlo Pesenti».
La redazione diventa il luogo prediletto e di andarsene non se ne parla. È Silvio Berlusconi a convincerlo, prima assumendolo all’interno di Fininvest e nominandolo poi, una volta eletto a presidente del Consiglio, suo sottosegretario alla presidenza. «La candidatura di Silvio? Fedele Confalonieri, top manager di Mediaset, ed io eravamo scettici. Dopo le elezioni chiamai l’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro su richiesta del Cavaliere. “Si prepari perché devo darle un incarico”, gli disse. Poi aggiunse indicando me: “Però non pensi di andare a Palazzo Chigi senza questo signore qui”».
Palazzi, ministeri e consigli dei ministri, ma Gianni Letta della politica di partito non voleva saperne. O per lo meno non voleva farne parte di persona. «Non ho mai avuto la tessera di un partito e su questo con Berlusconi fui chiaro, non volevo nessuna carica politica. Lui ogni anno mi sorprendeva con possibili promozioni, ma sapeva già quale sarebbe stata la mia risposta».
Con l’esperienza di quattro governi trascorsi, i successi sono molti, «anche se gli imprevisti ancora di più», dice Letta sorridendo mentre riceve la targa ricordo “Angeli della storia” dal rettore dell’università Luiss Andrea Prencipe, riconoscimento andato anche alla fondatrice del quotidiano Il Manifesto Luciana Castellina. «Mia moglie mi aspettava sempre sotto la redazione per cenare insieme e molto spesso non ce ne era l’occasione. Erano le notizie a comandare e, nonostante questo, era felice per me perché sapeva che non c’era niente di meglio del giornalismo per insegnarmi a essere pronto a tutto».