«L’acqua l’abbiamo pregata per tre anni e ora si è ricordata di noi». Luca Unibosi è un giovane imprenditore agricolo di Casola Valsenio, in provincia di Ravenna. A causa dei danni e delle frane causate dall’alluvione in Emilia Romagna, l’azienda agricola che gestisce insieme al padre è rimasta isolata per più di venti giorni. «Gli elicotteri sono diventati come delle macchine normali. Erano l’unico mezzo per comunicare con l’esterno e ricevere fieno e mangime per i nostri animali».
Durante l’alluvione del 3 maggio c’è un primo stacco di terra di oltre 20 metri nel campo di Luca. Il comune decide di evacuare lui e le sue vacche, che trovano riparo in un capannone allestito lì vicino. Poi, durante la seconda alluvione del 17 maggio, le frane si moltiplicano e l’azienda Unibosi perde gran parte del suo seminativo. «Il nostro territorio è inagibile in più punti, le strade sono quasi del tutto distrutte e il 70% dei nostri campi è da ripristinare. Per tornare alla normalità e risistemare un po’ il suolo ci vorranno minimo 15 anni».
Il comune di Casola Valsenio, insieme a quello di Riolo Terme e Brisighella, è tra quelli messi peggio per gli eventi franosi causati dall’alluvione. «Contiamo oltre mille frane», dichiara Assuero Zampini, direttore della Coldiretti per la provincia di Ravenna. «Per dare un’idea della situazione, in alcune aree se si paragonano le fotografie del paesaggio di prima con quelle adesso non riconosce più il territorio. Per il momento siamo riusciti a mettere in collegamento i centri aziendali di allevamenti con una viabilità di fortuna. Ci sono piste scavate fra una frana e l’altra, quindi ci sono difficoltà e limitazioni estremamente rilevanti. Tant’è vero che quelle che erano le coltivazioni di cereali nella zona non potranno essere trebbiate, perché la mietitrebbia, una macchina grande e pesante, non riesce a passare».
Tra le altre coltivazioni compromesse, ci sono quelle ortofrutticole, per cui la provincia di Ravenna è tra i maggiori produttori italiani, e quelle di sementi come barbabietole da zucchero, carote e cicorie, con una ricaduta importante anche a livello europeo. «Per non parlare di tutta la rete di canali di scolo e deflusso delle acque che è stata distrutta dal fango – continua Zampini – e che è fondamentale quando piove. Gli agricoltori si sono dati da fare dal primo giorno per tornare alla normalità, ma molto dipenderà anche dalla reazione delle piante. Lo stress che hanno subito provocherà anche un altro fenomeno, quello della non differenziazione delle gemme, che in primavera si differenziano per i frutti e per fare degli altri rami. In questa situazione è chiaro che la pianta non produce, ma si organizza per essere più forte. Ci saranno almeno due anni di perdita di produzione frutticola, con un problema occupazionale che riguarderà oltre 50.000 persone», conclude Zampini.
La resilienza degli agricoltori però fa la differenza. Mirko Giacometti si sente fortunato, perché i suoi campi sono stati colpiti poco dall’alluvione. Mette la sua fortuna a servizio degli altri, portando il fieno agli allevatori isolati che hanno perso gran parte dei loro campi e del loro mangime. «Attraverso la sezione agricola, Coldiretti e altre associazioni siamo riusciti a trovare dei volontari o dei benefattori che ci regalano foraggio per i nostri allevamenti. Gestiamo questa cosa pensando di riuscire a fare un po’ di magazzino per il prossimo inverno per chi non è riuscito a fare il fieno quest’estate».
«La situazione ha chiarito che se si abbandona la collina viene rovinata anche la pianura», continua Giacometti. «Se arriveranno gli aiuti economici dallo Stato non lo so, ma sicuramente senza aiuti non ci salviamo. Qualcuno, però, deve gestire la situazione, perché se lasciamo i nostri territori anche solo un altro inverno senza andarci a mettere mano e a sistemare, la prossima primavera le alluvioni sicuramente arriveranno giù in pianura».
Dello stesso parere è anche Luca Unibosi. L’azienda agricola di famiglia è nata nel 1913, con lui è arrivata alla quarta generazione e presto arriverà anche alla quinta, o almeno questa è la speranza. «Se lo Stato o la regione non mettono in opera contributi concreti per riuscire ad andare avanti, ho paura che molti vorranno abbandonare la loro vita in montagna. Molte aziende frammentate come le mie, in cui magari l’età media dei gestori è più alta, se non vengono aiutate, verranno sicuramente abbandonate. Io sono abbastanza giovane e il futuro mio e della mia famiglia vorrei poterlo immaginare qui».
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