Fin da bambini impariamo a dare un nome alle cose, ad attribuire un significato specifico a un concetto, riconoscendo che un oggetto, un’idea non può sostituire l’altra. Come riusciamo a farlo? Con una categorizzazione: organizziamo nella mente i pensieri in categorie, affidando un posto specifico ad ognuno di loro. Ispirata dalla volontà di chiarire il perché in alcune circostanze l’uomo uccide la donna – in particolar modo dopo le numerose aggressioni di stampo sessuale a Ciudad Juárez – Marcela Lagarde, antropologa e politica messicana, è tra le prime teorizzatrici negli anni novanta della parola: femminicidio. La donna viene uccisa in quanto donna, non perché compagna, fidanzata, moglie, ma perché afferente al genere femminile. Un vocabolo che poi dal Messico si diffonderà nel mondo, in Italia se ne parla dal 2000. Come chiarisce la sociologa Chiara Saraceno, si tratta di una nomenclatura che «non può sostituire, ma può solo affiancare un altro concetto: l’uxoricidio».
Una realtà differente, presente nel corso dei secoli che indica il fatto, l’uccisione della moglie da parte del marito, senza approfondire cosa c’è dietro l’uccisione, senza indagare le cause, si riferisce all’evento in sé. Una definizione, l’uxoricidio, che può inquadrare una forma specifica di violenza di genere, definire un preciso femminicidio, ma quest’ultimo resta «la categoria più grande», un range più ampio che va oltre la sfera matrimoniale, includendo tutti gli omicidi basati sul genere.
«Parlare di uxoricidio è riduttivo. È chiaro che non tutte le uccisioni di donne sono femminicidi – pensiamo alla donna che viene uccisa nel corso di una rapina – ma l’esporsi della donna in quanto tale può generare rapporti asimmetrici, visioni distorte dell’appartenenza al genere. L’uomo percepisce la sua unica identità, sentendosi in dovere di uccidere la donna che gli procura fastidio».
Si demarca il confine tra il fenomeno, il femminicidio, suscettibile di una spiegazione e il solo fatto. È l’esplorazione delle cause che contraddistingue i due termini, perché quando una donna viene uccisa a causa del genere, significa che «c’è una storia – il sistema patriarcale – che si cela nell’azione dell’uomo che vuole detenere il potere, il controllo sulla donna», spiega Saraceno. «Investire nel mercato del lavoro che può creare condizioni sfavorevoli nei confronti della donna, nella scuola, nelle aziende può volere significare agire sulla parità di genere», interviene Paola Profeta, educatrice, professoressa di Scienza delle Finanze all’Università Bocconi di Milano. «L’emancipazione economica, l’indipendenza della donna sotto il profilo lavorativo può incidere positivamente sull’escalation di violenza».
Come un pensiero che non può assimilarsi all’altro, i termini non sono interscambiabili e ci segnalano: «non c’è ancora una parità di genere», termina Saraceno, «l’uomo raramente è ucciso in quanto uomo. Negare una cultura di genere distorta, diseguale non aiuta a vedere quello che bisogna cambiare».
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