Esclusiva

Aprile 24 2025
«Luciano, cosa hai combinato?»

Da presidente della Camera, Violante parlò dei «vinti» e dei «ragazzi di Salò». Perché il 25 aprile è ancora necessario parlare di riconoscimento reciproco

Per primo chiese se non fosse il momento di riflettere «sui vinti di ieri» e sul perché «senza revisionismo falsificanti, migliaia di ragazzi e soprattutto ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò». Era il ’96 quando Luciano Violante, durante il suo discorso di insediamento come presidente della Camera dei deputati, pronunciava quelle parole. «Il fatto che, 30 anni dopo, il discorso si considera attuale, non è perché il discorso è importante, ma perché il problema resta attuale». Oggi «siamo ancora alla divaricazione» ma non manca la speranza che il dialogo parta dai giovani perché «per loro è meno difficile».

Gennaio del ’47, repubblichini e partigiani portano insieme una corona d’alloro sulla tomba del Milite Ignoto con scritto “Gli italiani agli italiani”. Cerimonia poi sconfessata dai partiti e dall’Anpi. Cosa ne pensa?

Dopo la fine della guerra ci furono numerosi tentativi di ricostruire il concetto di patria comune. Ci fu un discorso di Togliatti ai giovani della Federazione dei Giovani Comunisti a Roma nel ‘54, in cui disse che non era colpa dei giovani e che bisognava dialogare con i propri coetanei perché le responsabilità erano dei capi che li avevano portati in quella direzione. Molti cercarono di trovare un punto di non odio, di riconoscimento reciproco, fermo restando le identità differenti. Questo, ragionevolmente, urtava contro le esigenze contingenti delle diverse parti politiche. L’episodio che cita è positivo. Alla fine, però, l’idea del conflitto è prevalsa. Le lacerazioni della guerra civile erano state profonde, da entrambe le parti. Ha sempre trovato difficoltà nel Paese l’idea di capire le ragioni dell’altro.

30 anni dopo quel discorso, perché pronunciò quelle parole? Oggi a che punto siamo?

Lo feci perché lo ritenevo giusto. A me hanno colpito i diari di Benedetto Croce dell’8 settembre dove scriveva: tutto è perduto. Contemporaneamente i giovani prendevano le armi per difendere l’Italia. Un grande intellettuale non aveva capito che era il momento della svolta. 30 anni dopo io credo che siamo ancora alla divaricazione, si fatica da una parte e dall’altra al rispetto. Definire fascista Fratelli d’Italia o comunista il Partito Democratico sono infantilismi. Si tratta di categorie superate. Naturalmente esistono ancora residui nostalgici. Fratelli d’Italia, però, sta costruendo una strada per dare vita a un partito conservatore italiano. Il fatto che oggi il discorso si considera attuale, non è perché il discorso è importante, ma perché il problema resta attuale. Se il problema non fosse attuale non se ne parlerebbe.

Un discorso simile è quello di La Russa quando ricorda Fausto e Iaio e Sergio Ramelli.

Sì, anche se in una logica un po’ diversa.

Quelle parole che pronuncia alla Camera ricevono anche delle critiche, in particolare a sinistra. Perché?

Avvertii due dirigenti del mio partito. Loro mi sconsigliarono di farlo e io lo feci lo stesso. Arrigo Boldrini, il Presidente dell’Anpi e senatore, mi telefonò e mi disse: «Luciano, cosa hai combinato? Tu hai legittimato i fascisti». Risposi che non era così. Gli mostrai il discorso di Togliatti. Facemmo un incontro con l’Anpi a Bologna a porte chiuse, che, come si diceva, fu un franco aperto dibattito tra compagni. Non volarono le sedie ma poco ci voleva. Dopo una discussione molto seria e molto lunga trovammo un punto di comprensione. Si trattava, in un momento di egemonia della sinistra, di guardare oltre i propri confini. Intellettuali importanti italiani, che non hanno letto il discorso, criticarono pesantemente le mie parole. Non mi ha preoccupato particolarmente, era una cosa giusta. Come giusta fu la cosa che feci.

Carlo Mazzantini, repubblichino, nel suo libro A cercar la bella morte scrisse: «Era tutta la nostra cultura, tutto ciò che avevamo imparato in quei venti anni dentro i quali eravamo nati, e il mezzo attraverso il quale avevamo appreso il mondo». Qual è la sua idea di quei ragazzi?

Mio zio fu ucciso a Mauthausen. Io sono nato in un campo di concentramento inglese perché mia madre era ebrea e mio padre comunista. Vivevano in Etiopia dove c’era un’intolleranza minore. Poi arrivarono gli inglesi e misero tutti gli italiani in campo di concentramento. Fossi nato quindici anni prima la mia famiglia mi avrebbe corretto. Loro, invece, sono quelli che non sono stati corretti. Capisco ciò che scrive Mazzantini. Quella che non capisco invece è l’onore. Quale onore? Dei vagoni piombati? Della persecuzione degli ebrei? L’educazione fascista li aveva educati al disonore.

Sempre lui: «Vittoria? Sconfitta? Riguarda gli altri: i tedeschi, gli alleati. Noi ne siamo fuori. A noi non resta, non ci è stata lasciata che la nostra sorte individuale». L’onore potrebbe riferirsi a questo?

I protagonisti dello scontro erano nazisti e antinazisti. L’Italia fascista era una piccola appendice. Salò, indipendentemente dalla volontà dei singoli fu un sistema di supporto al nazismo, anche nelle operazioni più tragiche.

Nelle tesi del congresso di Alleanza Nazionale viene scritto: «Nel dopoguerra non tutto l’antifascismo è stato infatti antitotalitarismo. Oggi la destra politica fa propri i valori democratici che il fascismo aveva negato. Perché mai dovrebbe sopravvivere l’antifascismo?». Cosa ne pensa?

C’è una specificità italiana del partito comunista: chi ci ha insegnato è stato Gramsci, non Lenin. Ci furono all’interno del Pci delle posizioni fortemente filosovietiche, certamente non democratiche. Ci fu una lettera a Stalin dai portuali di Genova che si dicevano pronti al conflitto. Furono cacciati. Comprendo il discorso e quella posizione ma, lo dico da uomo di parte, non la condivido. La comprendo perché fa riferimento a un antifascismo non democratico ma che non si può addebitare a tutto il Partito Comunista.

Perché lo scontro fascismo-antifascismo è ancora centrale, in particolare tra i giovani? Esiste oggi un antifascismo non democratico?

Le classi dirigenti dovrebbero costruire progetti ideali per le giovani generazioni e quando non li costruiscono, le giovani generazioni si ritrovano sole. È la carenza di grandi valori ideali che fanno rifugiare in questo tipo di conflitti. Tra le parti politiche manca il rispetto. E se manca il rispetto tra gli adulti è chiaro che manca il rispetto anche tra i ragazzi. Perché i giovani immaginano che quella sia la forma del confronto politico.

È più facile che il riconoscimento dell’altro avvenga con un governo di destra o con un governo di sinistra?

Devono essere disponibili tutte e due. Non è un problema di governi, è un problema di disponibilità delle parti. Non è ozioso interrogarsi su queste cose, bisogna evitare di farlo solo il 25 aprile.

Storicizzare l’antifascismo oltre che il fascismo può essere un passo in avanti per avere una memoria condivisa?

Il fascismo è una filosofia, un modo di agire. Quando ci si professa antifascisti lo si fa con riferimento ad antisemitismo e discriminazione. Il problema è essere antifascisti democratici, cioè che questo non debba portare lo scontro al conflitto, all’aggressione perché questo non è accettabile. Io penso che il tema ci sia anche oggi e che debbano essere i giovani ad affrontarlo. Per loro è meno difficile affrontare il tema del rispetto reciproco.

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