Napoli, 27 settembre 1943. Dopo settimane di fucilazioni, coprifuoco e violenze, il grido è uno solo: “Mo basta!”. Al Vomero, un gruppo di civili armati ferma un’automobile tedesca e uccide il maresciallo alla guida. È la prima miccia delle Quattro Giornate di Napoli. Come scriverà anni dopo Antonio Tarsia in Curia, professore e testimone diretto dell’insurrezione, sulla rivista Patria: “Non vi fu un piano generale, e non vi poteva essere, data la fulmineità con la quale i cittadini vennero in possesso delle armi e divampò l’insurrezione.”
La città si solleva con ciò che ha: barricate improvvisate, bottiglie incendiarie, fucili nascosti. A combattere ci sono operai, studenti, donne, ragazzini. Il giorno dopo, la rivolta dilaga: Materdei, Foria, la Sanità diventano trincee urbane. «Ogni rione agì come un’unità autonoma.» spiega il professor Russo. «Non c’erano comandi centrali, ma alleanze di vicinato. Questo permise una resistenza diffusa, difficile da spegnere, anche per un esercito organizzato come quello tedesco.»
Tra vicoli e scale, i civili alzano barricate. A Materdei, Maddalena Cerasuolo, giovane operaia, affronta i tedeschi per impedire il saccheggio di una fabbrica. Poi si unisce ai combattenti del ponte della Sanità, punto strategico per l’accesso alla città. Sono decine le donne che imbracciano armi.
Il 29 settembre è il giorno più cruento. Napoli diventa un campo di battaglia. Tra esplosioni di mine, incendi e palazzi sventrati, i cittadini resistono. A Piazza Cavour, Piazza Garibaldi, lungo Corso Umberto, centinaia di persone si dispongono ai lati delle strade, improvvisando difese con mobili, tram rovesciati, macerie. «La struttura urbana di Napoli rappresentò un problema per l’esercito tedesco» afferma il professor Russo «Le strade strette, le alture, le scale, rendevano inefficace il movimento dei mezzi pesanti.»
Le armi spuntano dalle caserme abbandonate, dove i soldati italiani, disarmati dai tedeschi, le avevano nascosto. Alcuni militari tornano a combattere in abiti civili, unendosi alla rivolta. Tra gli insorti c’è Gennaro Capuozzo, dodici anni, ucciso da una granata mentre lancia pietre contro un mezzo corazzato. Gli scugnizzi, figli dei vicoli e della miseria, combattono con ferri e bombe artigianali: diventano il volto feroce della resistenza.
Il 30 settembre, anche se i tedeschi iniziano a ritirarsi, si continua a combattere. Fucilate si sentono ancora in via Duomo, via Settembrini, piazza San Francesco. Alla Pigna, nella masseria Pezzalunga, va in scena l’ultimo scontro armato. A Trombino, alcuni giovani vengono uccisi durante una delle ultime rappresaglie. Poi l’ultimo giorno: poche ore prima dell’arrivo degli Alleati, i tedeschi aprono un ultimo fuoco d’artiglieria da Capodimonte. Le esplosioni continuano quasi fino a mezzogiorno. Durante la fuga, i tedeschi incendiano l’Archivio Storico di Napoli a San Paolo Belsito. Nessuno diede l’ordine di insorgere: Napoli si prese la libertà da sola, un vicolo alla volta.