Contro il nazismo, in Germania, per incitare il popolo a «strappare il manto dell’indifferenza» e a combattere la dittatura con dignità. Dal fiore e dal colore della purezza prende il nome la Rosa bianca, un gruppo di giovani studenti ghigliottinati a causa della ribellione alle menzogne del regime. Attivo dal giugno 1942 al febbraio 1943, durante la Seconda guerra mondiale, la Rosa bianca ha come epicentro della resistenza non violenta e clandestina Monaco di Baviera, città dove studiavano medicina all’università tutti gli studenti maschi del gruppo: Hans Scholl, Christoph Probst, Alex Schmorell e Willi Graf. A loro si unirà qualche anno più tardi Sophie Scholl, sorella di Hans e studentessa di filosofia e biologia. Era parte della compagine anche Kurt Huber, professore di filosofia ed esperto di musica popolare.
«Dopo i primissimi anni in cui furono considerati traditori della patria, con l’uscita nel 1952 del primo libro sulla Rosa bianca di Inge Scholl [sorella di Hans e Sophie Scholl, n.d.r.], la storia ha cominciato a essere conosciuta», spiega Paolo Ghezzi, autore dell’opera «La rosa bianca. La resistenza al nazismo in nome della libertà». Il gruppo ha prodotto e distribuito sei volantini con una tiratura limitata, prefigurando un’Europa federale che superasse gli egoismi nazionali, e una forma di governo alternativa a quella dell’epoca. Tra i temi spiccavano il riferimento ai valori cristiani, la denuncia della criminalità del regime e un appello a risvegliarsi dalla «narcotizzazione» e dal «sonno della coscienza». La Rosa bianca combatté per la libertà attuando una «resistenza allo stato puro», e con una vernice al catrame imbrattò, in segno di protesta, alcuni edifici pubblici di Monaco.
Sophie Scholl, l’eroina amante del creato
«Preferirei essere lì da sola, essere una trota…» scrisse Sophie Scholl il 17 febbraio 1943, nella sua ultima lettera prima di morire all’amica Lisa Remppis. La ragazza, descritta come un “maschiaccio” dai vicini di casa, aveva un legame profondo con la natura, tanto che adorava arrampicarsi sugli alberi e bagnarsi con l’acqua mentre trascorreva momenti all’aria aperta. Si riuniva con gli altri membri del gruppo in serate letterarie e culturali a discutere di libri, articoli e prospettive politiche. Apprezzava la scrittura, l’arte, la musica e il disegno, si distingueva per lo spirito critico, l’animo anticonformista e la capacità di analizzare la società. «A Sophie piace vivere, l’appassiona questa avventura», scrive Ghezzi. Lei fu l’unica ragazza del gruppo e pagò con la vita, a poco più di vent’anni, la sua resistenza. Introdotta con un busto di marmo nel Walhalla di Regensburg assieme a personaggi tedeschi significativi come Martin Lutero, Albert Einstein e Ludwig van Beethoven, per Ghezzi Sophie Scholl «è diventata una figura fondativa della nuova Germania, una delle donne più conosciute nel Paese».
L’eredità simbolica
La Rosa bianca è diventata «un fenomeno mediatico popolare nella memoria collettiva, un mito», ricorda Ghezzi, citando le scuole, le piazze e i monumenti intitolati ai protagonisti del sacrificio contro il sistema hitleriano. La Rosa bianca non ha stabilito collegamenti con gruppi più importanti della resistenza tedesca, per cui è lecito parlare di fallimento sul piano dei risultati storici. Non aveva chance di rovesciare il regime, eppure resta indelebile l’impronta lasciata sotto il profilo della memoria e del messaggio simbolico: «Èstato colto il valore ideale e la spinta del gruppo», conclude l’esperto.