«In Libia non si vive, si sopravvive. In prigione pensavo di non farcela. Il pensiero, un giorno, di tornare a casa e raccontare ai miei genitori cosa avevo passato è ciò che mi ha tenuto in vita». Chiudere gli occhi può servire a non guardare. Ma chi scappa dalla Libia o dalla Tunisia, attraversa il Mediterraneo e lascia la propria casa in cerca di una vita migliore, non può evitare di vedere l’inferno. Lo racconta Mamadou Kouassi, 41 anni, il ragazzo a cui il regista Matteo Garrone si è ispirato per il film Io Capitano, sopravvissuto a un viaggio lungo tre anni e mezzo da Dame, in Costa D’Avorio, all’Italia, passando per i lager libici.
«Vedere persone morire nel deserto, imprigionate, torturate. Raccontare la mia sofferenza è servito per mostrare al mondo cosa significa essere migrante. Era come un passato che avevo dimenticato» dice Mamadou, fiero della candidatura della pellicola agli Oscar 2024. Ma quel ricordo è ancora il presente di migliaia di persone. A testimoniarlo è il rapporto Borders of (In)humanity di SOS Humanity, che raccoglie le storie di 64 sopravvissuti salvati nel Mediterraneo tra ottobre 2022 e agosto 2024 dalla nave Humanity 1. Uomini, donne e bambini che hanno conosciuto prigioni illegali, schiavitù, violenze sessuali e razzismo.
Una denuncia delle conseguenze delle politiche di esternalizzazione dell’Unione Europea, che affidano il controllo dei flussi migratori a paesi terzi per impedire l’accesso ai propri confini. E che hanno trasformato il Mediterraneo in un luogo insicuro. Secondo il rapporto, 166.393 persone sono state intercettate e riportate in Libia tra il 2017 e il 2025 dalla cosiddetta Guardia costiera libica. Insieme a quella tunisina, è stata creata e potenziata anche grazie al sostegno dell’Europa. Presentate come forze di “Search and Rescue”, queste unità sono spesso composte da milizie non regolari o attori statali corrotti. I fondi europei sono stati usati per la fornitura di motovedette, addestramento e attrezzature, ma il loro impiego ha portato più a intercettazioni e respingimenti che a salvataggi.
Diverse testimonianze nel rapporto documentano episodi in cui i “soccorritori” hanno aperto il fuoco, sabotato imbarcazioni o riportato i migranti nei centri di detenzione. «Tre partenze dalla Libia e ogni volta i libici ci hanno preso. Tre tentativi, tre volte in prigione. Ti torturano. È un business» racconta Keita, un sopravvissuto della Guinea. Fidaa, siriana e madre di cinque figli, ricorda: «Tre giovani si sono gettati in mare a causa delle violente botte subite. La Guardia costiera libica li ha lasciati morire davanti ai nostri occhi, maledicendoli mentre annegavano, dicendosi l’un l’altro: “Lasciateli morire, è più facile per noi e per loro”».
Solo nel 2024, 1.719 migranti sono morti nel tentativo di attraversare il Mediterraneo centrale. L’83% dei testimoni è partito dalla Libia, descritta come un buco nero in cui si entra e si scompare. «La Libia è un gruppo di gang che si vendono le persone tra loro» spiega Jamaal, giovane siriano. Ramadan descrive così la sua prigione: «Era fatta di lamiere conficcate nel terreno, a formare una cupola metallica sopra di noi. Dalle 10 alle 17, il caldo saliva a 60 o 70 gradi. Era impossibile per un essere umano sopravvivere in quelle condizioni. Quando qualcuno sveniva, nessuno veniva a portarlo fuori. La nostra pelle diventava così fragile che sembrava non ricoprire più le nostre ossa». Mohammed e Abdul ricordano che quando «qualcuno chiedeva delle medicine, arrivavano con le pistole e lo colpivano». Anche Mamadou conferma: «Lavoravamo sempre, a volte per uno o due mesi, e poi non ci pagavano. Oppure di notte entravano nelle nostre case e ci derubavano. Chi non aveva i soldi, veniva portato in galera dove ti chiedevano di chiamare un genitore o un parente per pagare il pizzo».
La Tunisia non è un’alternativa sicura. Il 17% dei sopravvissuti racconta di essere partito da lì. Oltre al razzismo sistemico verso i migranti subsahariani, si aggiungono schiavitù, aggressioni fisiche e violenze sessuali da parte delle milizie. «Moltissime donne vengono rapite e fanno loro tutto quello che vogliono con la forza sessuale. Ci vanno a letto. Per questo, molte ragazze hanno gravidanze indesiderate e problemi mentali» racconta Diana, eritrea.
Il prezzo è alto, sia per le vite spezzate che in termini economici. I costi dell’esternalizzazione, nel periodo tra il 2015 e il 2027, ammonteranno a oltre 290 milioni di euro. Soldi spesi dall’UE per sostenere la cosiddetta Guardia costiera libica e tunisina, i centri di detenzione e i sistemi di controllo dei confini. Al contrario, le missioni umanitarie come SOS Humanity, che ha salvato oltre 4.000 persone in tre anni, sono costate 42 milioni in dieci anni.
Le guardie costiere italiane o maltesi spesso segnalano le imbarcazioni in pericolo ai libici o ai tunisini, pur consapevoli delle condizioni di illegalità in cui agiscono. Ramadan ricorda: «Quando abbiamo raggiunto le acque territoriali maltesi, un piccolo aereo da ricognizione è arrivato e ha scattato delle foto alla nostra barca. Dopo circa quattro ore, un aereo maltese ha lanciato una bomba fumogena vicino a noi, sembrava un segnale. Dopo mezz’ora, la Guardia costiera libica è venuta e ci ha riportati indietro. In realtà, la Guardia costiera non è collegata alla prigione, ma ci vende a loro per denaro, è un modo per fare profitto».
Molti dei sopravvissuti arrivano in Italia con un solo desiderio: lasciarsi alle spalle l’orrore vissuto. «In Africa ci affascinava il valore dell’Europa. La libertà, la democrazia, il rispetto dei diritti umani. Un mondo migliore dove seguire i nostri sogni» ricorda Mamadou, che voleva diventare un calciatore. «Spero che i figli dei miei fratelli possano integrarsi nella vita occidentale, culturalmente diversa dalla nostra, e che trovino opportunità di studio, una vita senza paura» è l’augurio di Rami, siriano.
L’appello che chiude il rapporto è netto: l’Unione Europea deve interrompere ogni collaborazione con Libia e Tunisia, che non sono considerati luoghi sicuri secondo il diritto internazionale, per istituire un programma europeo pubblico di soccorso in mare.
«Per me l’Europa è consapevole, ha siglato gli accordi con la Libia. È importante che ritrovi il valore dell’umanità, che oggi sta perdendo» dice Mamadou. «L’essere umano è fatto di movimento. Il migrante è una persona che parte alla ricerca della propria identità, da sempre. L’aiuto dei governi è necessario per muoversi in libertà e sicurezza». Oggi vive a Caserta, lavora con bambini e famiglie italiane, racconta la sua storia nelle scuole: «Il mare per me è un punto di partenza. Ogni volta che lo vedo, mi ricorda l’inizio della mia nuova vita».