A Gerusalemme Est, anche un muro può diventare protagonista di una storia. Non come sfondo, ma come personaggio. È questo uno dei punti centrali del libro Un giorno nella vita di Abed Salama – Anatomia di una tragedia a Gerusalemme, presentato il 13 novembre all’Università Luiss di Roma dal suo autore, Nathan Thrall, vincitore del Premio Pulitzer nel 2024.
Il libro parte da un incidente stradale che coinvolge bambini palestinesi, tra cui Milad, e racconta la storia di suo padre, Abed Salama. La sua vita diventa il microcosmo di un’intera società, un racconto dove le vicende individuali e l’ingiustizia politica si intrecciano. Il cemento delle barriere e l’asfalto delle strade diventano testimoni, non più scenari. Attraverso questi Thrall mostra quanto le politiche dello Stato israeliano rendano la vita quotidiana dei palestinesi fragile e precaria.
L’incontro, introdotto dalla giornalista Francesca Mannocchi, ha messo in luce il valore del lavoro di Thrall come esercizio di ascolto e di coraggio intellettuale. Mannocchi ha descritto la sua voce come indispensabile ricordando come «il giornalismo al suo meglio sia un atto di ascolto e un invito a vedere il quadro completo anche quando la verità è scomoda e contraddittoria». In questa prospettiva, lo storytelling diventa una forma di resistenza, un modo per rifiutare la semplificazione e dare spazio alla complessità.
Ciò che rende il libro straordinario è proprio la sua capacità di restare lontano dalla banalizzazione.
Il valore del racconto, infatti, risiede nello sguardo di Thrall che, pur essendo quello di un giornalista, si avvicina a quello di un testimone morale. Un osservatore che non si limita a registrare i fatti, ma si assume la responsabilità di metterli in discussione e di portarne alla luce le contraddizioni.
Una volta sul palco, Thrall, ha preferito parlare poco e trasformare l’incontro in un dialogo, lasciando ampio spazio al confronto con studenti e giornalisti. Ha raccontato come la genesi del libro sia stata tutt’altro che lineare. Un giorno nella vita di Abed Salama era nato come un articolo, ma si è trasformato in qualcosa di più grande. Le parole si accumulavano e la forma giornalistica si è rivelata insufficiente.
«Molte storie sul conflitto israelo-palestinese presuppongono due parti uguali, una tragedia vissuta da entrambi. Ma questa è una falsa equivalenza dal momento in cui è in atto una vera e propria occupazione», ha detto Thrall, prima di aggiungere: «Si può davvero definire Israele una democrazia?»
Uno degli aspetti più affascinanti del suo racconto è la centralità dello spazio. L’autore mostra come una strada o un muro possano diventare determinanti quanto i protagonisti stessi. Le barriere fisiche, geografiche o burocratiche non sono solo ostacoli, ma presenze che scandiscono il tempo e la libertà di chi le attraversa.
Nel corso della conversazione, l’autore ha spiegato la necessità di riformulare il modo in cui viene raccontato il conflitto israelo-palestinese. Le narrazioni dominanti, ha detto, si fondano su un’idea di equilibrio che in realtà maschera una profonda asimmetria. Nel raccontarlo, il suo lavoro mira proprio a rompere la superficie, a costringere il lettore a guardare ciò che di solito resta invisibile perché scomodo.
Thrall ha poi riflettuto sul ruolo del giornalista, che a suo avviso non coincide con la neutralità.
Alla domanda posta dal pubblico su come bilanci il coinvolgimento emotivo con l’esigenza di oggettività, Thrall ha risposto senza esitazioni: «Non credo nell’oggettività», in quanto «l’empatia è fondamentale e consente di avvicinarsi davvero alla verità. Raccontare significa guardare qualcuno negli occhi e lasciarsi guardare a propria volta. Quando una persona capisce che la stai ascoltando davvero, qualcosa cambia, ed è in quella connessione che può nascere un racconto autentico».
Nella Cisgiordania di Thrall, i muri parlano e le strade raccontano, ed in un tempo in cui le storie vengono spesso ridotte a slogan, ci ricorda che la complessità è un atto di resistenza e che il giornalismo, può ancora farsi spazio tra i muri, diventando esso stesso un gesto di libertà.






