«L’ostacolo più grande per le donne che vogliono entrare nel mercato del lavoro è la maternità: hanno meno possibilità di essere assunte dopo aver avuto un figlio», ha dichiarato Claudia Pitteo, del gruppo di ricerca della School of Gender Economics dell’Unitelma Sapienza. L’Università ha condotto un’indagine in Italia sul rapporto tra lavoro di cura, tempo, benessere e partecipazione economica delle donne, presentata il 1° dicembre 2025 al Palazzo Madama, sede del Senato della Repubblica Italiana. Lo studio è stato guidato dall’economista Azzurra Rinaldi, in collaborazione con Claudia Pitteo e con il supporto di Dawid Dawidowicz dell’Università West Pomeranian in Polonia.
Il report dal titolo “Determinanti strutturali e meccanismi di riproduzione delle disuguaglianze di genere” si fonda sulla revisione dei dati esistenti e su nuove evidenze empiriche raccolte attraverso la partecipazione di 2.456 donne, con l’obiettivo di far capire come il lavoro di cura non retribuito influenzi le loro vite professionali.
La presentazione ha messo in evidenza, attraverso i dati, ciò che molte vivono ogni giorno. Dopo tre anni di indagine, i risultati mostrano che, nonostante i progressi nel mercato lavorativo, questi non si sono tradotti in una reale riduzione delle disuguaglianze. Le donne continuano a sostenere la maggior parte del carico di cura domestico, dai lavori di casa alla gestione della famiglia, oltre al lavoro retribuito.
Durante la presentazione, Azzurra Rinaldi ha approfondito lo studio, sottolineando che si tratta di una questione di «ingiustizia sociale e inefficienza produttiva». Il contratto collettivo nazionale organizza tempi e modi di lavoro pensati su un modello maschile, che esclude le donne. Il gender pay gap (divario salariale di genere) è la differenza media tra quanto guadagnano gli uomini e quanto guadagnano le donne per lavori comparabili o all’interno dello stesso mercato del lavoro. Nonostante la sua esistenza sia stata messa in discussione, la realtà è che si tratta di un problema che ancora esiste, e che tende a peggiorare.
Secondo il Global Gender Gap Report, l’Italia è all’85° posto su 148 paesi analizzati per opportunità e partecipazione economica, mentre per quanto riguarda la posizione complessiva è al 117°, in calo rispetto al 111° del 2024.
Nel mondo, sulla base dei dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, 708 milioni di donne sono escluse dal mercato del lavoro a causa delle responsabilità di cura.
A complemento della letteratura esistente, i risultati dello studio mostrano che il 53% delle donne gestisce completamente da sola le responsabilità domestiche, mentre solo il 30% riferisce un coinvolgimento parziale del partner. Inoltre, tra le donne nella fascia di età 36-45 anni, l’81% non riesce a dedicare nemmeno un’ora al giorno a sé stessa.
Queste aspettative imposte alle donne hanno un impatto psicologico significativo: il 70% riporta affaticamento cronico e difficoltà a recuperare energie. Non si tratta di uno stress spontaneo, ma del risultato di un sistema che aggrava la salute e la produttività.
Lo studio esplora non solo l’accesso al lavoro per le donne, ma anche quanto tempo hanno per dedicarsi alla cura di sé, alla formazione e alla crescita professionale. Risulta chiaro come il tempo costituisca una risorsa economica scarsa e mal distribuita.
L’intervento di Pitteo ha sottolineato che «gli stereotipi di genere sono profondamente radicati nella cultura» e alimentano pretese sulle donne che influenzano la loro percezione di sé e le loro prospettive future. Alla base di queste vi è il lavoro di cura non retribuito, che, a maggior deferenza degli uomini, comporta minore disponibilità di tempo, minore partecipazione al lavoro di mercato e dunque maggiore vulnerabilità economica. Questa vulnerabilità economica si collega alla violenza economica, un abuso caratterizzato dall’uso dei soldi per imporre controllo e subordinazione nella coppia.
Al centro dei risultati c’è il fatto che la maternità rappresenta l’ostacolo principale alla crescita professionale. Dopo aver avuto un figlio, una donna subisce discriminazioni che riducono le probabilità di essere assunta e le opportunità di avanzamento nella carriera.
Stando ai dati dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, in Italia il 73% delle dimissioni volontarie richieste nel 2023 sono state presentate da lavoratrici madri.
Nel panel era presente anche la giornalista del Sole 24 Ore Manuela Perrone Iacobone, che ha sottolineato come, quando una donna diventa madre, si dia per scontato che avrà meno tempo, mentre quando un uomo diventa padre si presuma che diventi più affidabile e responsabile.
Inoltre, ha rimarcato come, nonostante le donne siano più laureate degli uomini, siano comunque meno presenti in ruoli dirigenziali, evidenziando come questa disparità di genere non sia solo economica o strutturale, ma profondamente radicata in norme e aspettative culturali sul ruolo delle donne nella società e nel lavoro. Perrone ha sostenuto che molti bonus, pur pensati per sostenere le donne, finiscono per avvantaggiare maggiormente gli uomini, perché operano in un mercato del lavoro invariato. Gli uomini occupano già posizioni più stabili, subiscono meno interruzioni per motivi di cura e rispondono al modello del «lavoratore ideale», mentre le donne continuano a confrontarsi con flessibilità limitata, responsabilità domestiche sproporzionate e ambienti di lavoro pensati per il full-time sempre disponibile. Così, questi bonus possono ampliare le disuguaglianze di genere, confermando che solo misure strutturali e durature possono affrontare il problema.
Il panel ha collegato queste evidenze anche a tendenze demografiche attuali, mostrando come le condizioni lavorative e di cura influenzino indirettamente il dibattito sulla natalità. In un paese con poche nascite, dove il governo sostiene che si tratti di un’assoluta priorità, la senatrice del Partito Democratico Cecilia D’Elia commenta: «Si parla di natalità senza parlare del benessere delle donne». Il panel ha dimostrato che, nelle scelte familiari delle donne, sono centrali la partecipazione economica, la disponibilità di tempo e le condizioni lavorative. Il dibattito sulla natalità, quindi, non può essere separato dalle condizioni di vita e di lavoro.
Non sorprende, dunque, che anche le nuove leggi, come l’introduzione nel novembre 2025 del reato autonomo di femminicidio, mostrino i limiti delle sole riforme. Come dice lo studio, non può produrre un cambiamento reale se non si interviene sulle radici culturali della discriminazione: stereotipi di genere, aspettative sociali e percezioni profondamente interiorizzate che continuano a definire il ruolo delle donne nella famiglia, nel lavoro e nella società.