«Il malato non desidera il medico eloquente» scriveva il filosofo latino Lucio Anneo Seneca. Nemmeno il governo, verrebbe da dire pensando alla vicenda di Li Wenliang. Il giovane dottore cinese, primo a segnalare le possibilità di un’epidemia dovuta ad un nuovo agente patogeno, è morto il 7 febbraio per le complicanze dell’infezione da Coronavirus, lasciando la moglie incinta e suo figlio. Per non infettarli si era allontanato da casa, trasferendosi in albergo.
Il medico cinese era stato accusato da Pechino di aver disturbato l’ordine sociale e diffuso false informazioni. Proprio lo scorso 30 dicembre l’oculista di Wuhan, dopo aver riscontrato su alcuni pazienti una positività con alto livello di confidenza per i test del Coronavirus Sars, aveva diffuso l’allarme tramite WeChat ad alcuni colleghi. Era stato così ammonito e successivamente arrestato. Tra sospetti, errori e contraddizioni, dopo pochi giorni di prigionia era stato rimesso in libertà mentre la paura stava dilagando nel Paese. Le sue previsioni erano corrette.
Tornato al lavoro, il 10 gennaio aveva manifestato i primi sintomi della malattia, diagnosticata poi il 1° febbraio. Dalla metà di gennaio, le sue condizioni si erano aggravate ed era stato ricoverato in terapia intensiva.
La sua storia ricorda da vicino quella di Carlo Urbani, medico e microbiologo originario delle Marche, che nel 2002 era stato il primo a identificare e classificare la Sars, la polmonite atipica causa dell’epidemia esplosa in Asia e responsabile della morte di circa 800 persone. Era stato contagiato da un paziente dell’ospedale di Hanoi (Vietnam) nel febbraio 2003 e deceduto a marzo. Fino alla fine si era dimostrato sempre dedito alla sua professione, consentendo al personale sanitario di prelevare tessuti dei suoi polmoni a fini di ricerca. Urbani, grazie al suo coraggio, fu soltanto uno dei cinque decessi dell’epidemia in Vietnam, primo Paese del Sud-Est asiatico a dichiarare l’infezione debellata.
Un caso a lieto fine è quello dell’infettivologo catanese Fabrizio Pulvirenti, colpito dal virus Ebola nel 2014 mentre stava prestando servizio come volontario in Sierra Leone. Nel novembre di quello stesso anno aveva contratto la malattia ed era stato trasferito all’ospedale Spallanzani di Roma. Dopo 40 giorni di ricovero, l’equipe sanitaria aveva annunciato la sua completa guarigione.
Il lavoro dei medici, a volte dato per scontato, li espone a rischi maggiori rispetto al resto della popolazione. Dall’Ebola al nuovo Coronavirus, le misure di prevenzione previste possono non bastare a scongiurare il contagio. Il dottor Li Wenliang è soltanto l’ultimo di una serie di operatori sanitari vittima di infezioni epidemiche. Persone sconosciute ai media, che hanno perso la vita facendo il loro mestiere.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha espresso in un tweet il profondo rammarico per la scomparsa del medico cinese. Un riconoscimento importante ma forse inutile per chi si è dedicato agli altri sacrificando la propria vita e perdendo i propri cari.