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Esclusiva

Febbraio 26 2020
L’epidemia dilaga sulle prime pagine, troppo allarmismo?

Come ha reagito il mondo dell’informazione al dilagare del Coronavirus in Italia? L’intervista a Emiliana De Blasio, docente di Sociologia della Comunicazione alla Luiss ed esperta di Media e Society

Venerdì 21 febbraio i giornali parlano di un primo caso di Coronavirus, è un trentottenne di Codogno, Lodi. Da quel momento le notizie del virus non lasceranno più le prime pagine di tutti i quotidiani nazionali. Il bilancio dei contagiati e delle vittime è in continuo aggiornamento e sembra non esserci spazio per altri temi Zeta ha intervistato Emiliana De Blasio, docente di Sociologia della Comunicazione alla Luiss ed esperta di Media and Society, per capire come hanno reagito le testate italiane alla minaccia di COVID-19

I media italiani, sul Coronavirus, non hanno voluto instaurare un clima positivo?

«Nel mondo dei media ognuno fa il suo gioco e ha il proprio posizionamento politico. In questo gioco c’è un interesse abbastanza chiaro da parte delle testate che supportano l’opposizione a destabilizzare il governo, nonostante stia facendo un ottimo lavoro nella gestione della minaccia anche a livello mediatico».

È eccessiva la copertura del Coronavirus da parte delle testate italiane? 

«Ormai c’è un overload comunicativo, si sta focalizzando l’attenzione solo su questo tema. Adesso bisognerebbe avere un minimo di responsabilità e giungere “a più miti consigli”. Sul Coronavirus vengono lanciati comunicati stampa due volte al giorno e le conferenze stampa della Protezione civile sono quotidiane, così come le dichiarazioni pubbliche di Conte, della Ministra dei trasporti e del Ministro della salute; ci sono poi le comunicazioni ufficiali delle Regioni, fondamentali per avere i dati della minaccia. È evidente che le istituzioni ci stiano già dicendo tutto e questa situazione di estrema trasparenza non c’è mai stata prima d’ora. Forse è proprio questo che sta spiazzando l’opinione pubblica: non siamo abituati a tutta questa trasparenza. Il gioco politico dei vari quotidiani è diverso, cercano di arrivare per primi alla notizia, qualunque essa sia. È assurdo pensare che all’attenzione dell’opinione pubblica sia posto solo questo tema, come se non ce ne fossero altri. In realtà c’è la grossa questione politica della prescrizione, che è stata rimandata, e problemi legati ai rapporti internazionali, basti pensare a Trump: sarebbe interessante sentirne parlare. Vedere servizi e articoli continui sui supermercati saccheggiati che alla fine del pezzo riportano la frase “però non vi preoccupate” forse non aiuta».

Nota delle differenze nella copertura mediatica che è stata data del Coronavirus tra i media italiani ed europei?

«Probabilmente noi siamo molto più concentrati sul tema perché siamo stati noi ad aver scoperto questi casi, ma l’Italia in generale presta più attenzione alle malattie. Gli altri media europei preferiscono una dimensione contenitiva ma questo è e sarà un problema: anche loro scopriranno di avere il virus in casa. Temo succederà anche in Africa, anche se spero di no. In ogni caso trattano noi italiani utilizzando un po’ lo stereotipo di noi stessi, per questo non dovremmo premere troppo l’acceleratore su questa comunicazione interna della crisi e dovremmo evitare di dire che siamo in difficoltà. Alla fine noi siamo a Roma, il virus ancora non c’è. Al di là dei territori circoscritti, per il momento la situazione non sembra disperata, la stiamo esasperando dal punto di vista economico. Invece la stampa internazionale mi sembra che stia parlando più che altro di psicosi di massa e di problemi legati al turismo, ma è perché in alcuni Paesi c’è un interesse a giustificati la chiusura dei propri rapporti con l’Italia e per far sì che questa sia una strategia condivisa devono far leva sulla sfera pubblica».

Era necessario sottolineare che fossero state tre donne – in un team condiviso con due uomini – a isolare il virus?

«Penso sia giusto perché la comunicazione nel tempo diventa sostanza. Le protagoniste sono tre donne normali, anche nell’aspetto. Potrebbero essere la nostra vicina di casa, la signora che va a prendere i figli a scuola. È questo quello che piace delle donne straordinarie, la normalità nell’eccezionalità. È quindi un bel modo di comunicare la scienza e per farlo sono state fatte due operazioni di egemonia: si è detto che la scienza è importante e che la scienza è anche donna. Abbiamo dato importanza al genere femminile, anche se c’erano degli uomini, ma va bene: sono centinaia di anni che diamo importanza agli uomini. È una forzatura, ma la cultura ha bisogno di forzature a volte, sennò non cambia».