«All’immigration tutto è filato liscio, sia per me sia per gli altri sei ragazzi che accompagnavo. Quasi nessuno indossava la mascherina né tra il personale né tra gli altri viaggiatori. Usciti dall’aeroporto ci siano sistemati in hotel e siamo andati a fare foto». Alessandro è un fotografo fiorentino che da un paio d’anni a questa parte, nel mese di marzo, tiene workshop in India per chi vuole migliorare la tecnica fotografica ed insieme scoprire un nuovo paese. Conosce bene il territorio.
È arrivato all’aeroporto di Nuova Delhi la mattina del 3 Marzo. È stato fra gli ultimi passeggeri italiani ad entrare in India senza intoppi. Nelle stesse ore si stava diffondendo nel paese la notizia che una comitiva di turisti provenienti dall’Italia era risultata positiva al coronavirus e stava iniziando la quarantena nel Rajasthan. Arrivati a fine febbraio, quando le autorità indiane non avevano ancora predisposto i controlli termici negli aeroporti, i ventuno turisti avevano già fatto un tour nel nord del paese – Jaipur, Jodhpur, Bîkâner e Agra – prima che il tampone risultasse positivo.
«La mattina seguente, il 4 marzo, siamo partiti per Mathura» racconta Alessandro con la voce bassa, non si sente molto bene da qualche ora. «Lì, già prima dell’inizio ufficiale dell’Holi festival le strade si riempiono di acqua e colori. È uno spettacolo bellissimo da fotografare ma non semplice da vivere perché la folla è fittissima, non vedi quasi nulla per via dei colori sul volto e l’acqua, mentre cammini, raggiunge le caviglie». L’Holi Festival, conosciuto anche come festival dei colori, è una manifestazione religiosa induista che celebra la vittoria del bene sul male, la fine dell’inverno e l’avvicinarsi della primavera che dona nuova fertilità alla terra. Si festeggia in moltissime città indiane, tra i festival più conosciuti ci sono quelli di Vrindavan e di Mathura.
La notizia degli italiani che avevano portato il Covid-19 nel paese si stava diffondendo velocemente e nelle stesse ore lo Stato, che aveva già sospeso il rilascio dei visti, ha chiuso l’ingresso ai viaggiatori provenienti da Italia, Cina, Iran e Corea del Sud per timore del coronavirus. «La situazione è peggiorata in un attimo» ricorda Alessandro. «L’autobus su cui viaggiavamo da Nuova Delhi a Mathura non ha fatto nessuna sosta. L’autista non si voleva fermare nelle aree di servizio. Per una ragazza che doveva utilizzare urgentemente il bagno abbiamo accostato di fronte ad una casa privata e chiesto alla proprietaria la cortesia di entrare, pur di non fermarci in un luogo pubblico. La nostra guida, indiana, dopo averci mostrato l’articolo di giornale in cui si parlava dei 16 italiani positivi al Covid-19 ci ha detto di non comunicare la nostra reale provenienza. “Dite di essere europei se qualcuno vi fa domande, o meglio, spagnoli” e così abbiamo provato a fare. Scesi per le strade di Mathura, però, alcune persone del luogo, senza farci alcuna domanda, hanno iniziato ad urlarci dietro “Coronavirus”. Ci siamo spostati più avanti.
Poco dopo, mentre salivo le scale del tempio di Krishna un signore ha iniziato a picchiarmi con un bastone e in un attimo anche tutti quelli intorno hanno iniziato a spingermi e battermi. Non ho capito cosa stava succedendo e perché mi sono trovato ad essere il centro della baruffa ma mi sono, di nuovo, velocemente spostato.
Arrivati in hotel, a Mathura, il personale alla reception ha chiesto alla guida “sono italiani?”. Non ci hanno fatto avvicinare al bancone. Tutti, all’improvviso, hanno tirato fuori le mascherine e ci hanno passato le nostre. Ci hanno dato le camere in un unico piano, isolato dal resto dell’hotel. A cena, invece di farci accomodare nella sala ristorante comune, ci hanno chiesto di scendere in uno stanzone in fondo alle scale. Il cibo era già pronto in vaschette di plastica fredde e soltanto un cameriere ha atteso che ordinassimo da bere prima di sparire. L’atmosfera iniziava ad essere pesante ed i ragazzi preoccupati. Provavo a parlare di fotografia per stemperare la tensione ma era molto difficile anche per me.
Durante la cena è arrivata una email da Air India in cui la compagnia ci informava di aver cancellato i nostri voli di rientro in Italia previsti per il 12 marzo. Abbiamo subito concordato di ricomprare a nostre spese il biglietto per il giorno successivo e rientrare a Roma. All’hotel e all’aeroporto di Nuova Delhi l’atmosfera era molto diversa da poco meno di due giorni prima. Tutti indossavano la mascherina. Ed i dispenser con l’igienizzante erano già stati installati lungo le pareti.
Sabato 7 marzo, alle 8.30 di mattina siamo atterrati a Roma. Mentre gli altri ragazzi si sono diretti verso casa, io mi sono fermato in città per vedere mio figlio. Un ragazzino di 12 anni. Non avevo e non ho alcun sintomo particolare ma per precauzione, visto che sono stato in aeroporto ed ho preso mezzi pubblici, ho deciso di indossare la mascherina durante la nostra passeggiata per la città. Siamo stati a distanza, camminato e pranzato insieme. Nel pomeriggio ho accompagnato mio figlio agli allenamenti di tennis prima di ripartire per Firenze. Credo mi abbiano visto alcuni genitori e l’allenatore. Poco dopo, in treno, ha iniziato a squillarmi il cellulare. Era il maestro di tennis che dopo aver visto Niccolò con me mentre indossavo la mascherina ha deciso, insieme agli altri genitori, di sospendere mio figlio dagli allenamenti. Ci sono rimasto male: ho indossato la mascherina per senso civico e per precauzione e, a causa di questo, mio figlio è stato discriminato. Su Whatsapp Niccolò mi scriveva “non mi importa babbo tanto io ci vado lo stesso a tennis” ma sapevo benissimo che non ci sarebbe andato e che gli importava.
Ho chiamato il numero di emergenza 1500 per fare il test e togliermi ogni dubbio, in modo che mio figlio potesse tornare agli allenamenti senza pericolo ma mi hanno detto di non poter essere sottoposto al tampone, perché non sono un soggetto a rischio». Ora, in seguito al nuovo decreto del Governo firmato dal Presidente del Consiglio l’otto marzo, la scuola di tennis è chiusa per tutti.
La fotografia è di Alessandro Beconi.