«Il coronavirus è l’Ebola dei ricchi e richiede uno sforzo coordinato e transnazionale. La catastrofe che sta travolgendo la ricca Lombardia potrebbe verificarsi ovunque». Si chiude così la lettera dei medici dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo inviata al New England Journal of Medicine, il prestigioso settimanale di Boston.
Martedì 25 febbraio i casi di coronavirus a Bergamo sono 14. Al momento in cui si scrive sono 6.728. Il 18 marzo una colonna di camion militari trasporta le salme fuori dalla città. Operazione che viene ripetuta dopo tre giorni. Perché sono troppe, perché al cimitero non c’è più posto, perché i tempi delle cremazioni sono troppo lunghi.
«Il 70% dei letti di terapia intensiva nel nostro ospedale è riservato a pazienti affetti da Covid-19 in condizioni critiche che hanno ragionevoli possibilità di sopravvivere». Quello che preoccupa di più sono le condizioni dei pazienti più anziani, che «muoiono da soli» mentre le famiglie che «non possono avere alcun contatto» con loro «sono avvisate del decesso dei loro cari per telefono, da medici gentili ma esausti».
Le strade di Bergamo sono deserte e all’ingresso dei principali ospedali della provincia ci sono file di ambulanze che aspettano di poter entrare. I medici e gli operatori sanitari sono stremati e molti di loro anche contagiati.
«Stiamo dolorosamente imparando che c’è bisogno di esperti di salute pubblica ed epidemie» scrivono i medici nella lettera, «ancora non ci si è resi conto della necessità di coinvolgere nei processi decisionali chi ha le competenze per contenere comportamenti pericolosi per il diffondersi dell’epidemia». Gli ospedali, per esempio, «possono essere i principali veicoli di trasmissione del Covid-19, poiché si riempiono rapidamente di malati che contagiano i pazienti non infetti» e anche «le ambulanze e il personale sanitario diventano rapidamente dei vettori».
È una lettera che fa suonare un allarme sull’inadeguatezza del sistema sanitario attraverso l’esperienza diretta di medici impegnati in uno degli ospedali più schiacciati dall’emergenza, ma che si riferisce a un più largo pubblico, quello degli altri ospedali italiani e quello degli altri paesi, i quali, se non fermano il contagio, potrebbero ritrovarsi a fare i conti con le stesse mancanze.
L’appello arriva alla redazione del New England Journal of Medicine (Nejm) il 24 marzo, il giorno in cui in Italia si contano, secondo l’Istituto superiore di sanità, 4.824 contagiati nella sanità, e cioè il 9% degli infetti. Anche questo dato, dopo la percentuale che ha portato l’Italia ad essere il primo paese al mondo per le vittime del coronavirus, supera quello della Cina. Anzi quasi lo triplica: in Cina i professionisti sanitari contagiati erano il 3,8%, e il dato italiano potrebbe anche essere sottostimato.
Gli autori della lettera chiedono soprattutto un cambiamento di paradigma, da una assistenza sanitaria incentrata sul paziente a una incentrata sulla comunità. A Bergamo, a Brescia, a Cremona, come nelle zone circostanti, «si deve dare priorità alla protezione del personale medico, non si possono fare compromessi sui protocolli, l’equipaggiamento deve essere disponibile».
«Cure a domicilio e cliniche mobili evitano spostamenti non necessari e allentano la pressione sugli ospedali. Ossigenoterapia precoce, ossimetri da polso, e approvvigionamenti adeguati possono essere forniti a domicilio ai pazienti con sintomi leggeri o in convalescenza. Bisogna creare un sistema di sorveglianza capillare che garantisca l’adeguato isolamento dei pazienti facendo affidamento sugli strumenti della telemedicina».
Tra i medici firmatari della lettera al Nejm c’è anche Angelo Giupponi, direttore dell’Agenzia regionale emergenza urgenza (AREU) di Bergamo. Il 22 febbraio il medico inviava un’email all’assessorato al Welfare della regione Lombardia, diretto da Giulio Gallera: c’è «urgente necessità di allestire degli ospedali esclusivamente riservati a ricoverati per Covid-19, così da evitare promiscuità con altri pazienti e quindi diffusione del virus nelle strutture ospedaliere».
La risposta dei dirigenti regionali, come raccontato dal medico stesso al Wall Street Journal, che lo ha riportato in un articolo del 17 marzo, è stata: «Non dormiamo da tre giorni, non abbiamo voglia di leggere le tue cazzate».
Il sindaco di Nembro, Claudio Cancelli, che il 3 marzo risulta positivo al tampone, commenta il calo della mortalità degli ultimi giorni dicendo: «Il calo dei decessi è significativo, soprattutto rispetto al periodo dal 10 al 13 marzo. Dall’inizio del mese a Nembro abbiamo avuto tra i 110 e i 120 morti. Nello stesso periodo dello scorso anno quattordici. Basta questo per capire».
I morti nella Bergamasca sono quasi mille ma la voce dei sindaci trema in ogni intervista in cui gli viene chiesto di fare un bilancio. Da Alzano a Nembro, da Dalmine a Stezzano, alla Bassa tutti, guardando i dati, contraddicono le cifre ufficiali sulle vittime perché «sono molte di più». Non sono cifre, ma persone riconoscibili e anzi conosciute, in un contesto intimo di paesi piccoli in cui si conoscono tutti.
In tutta la zona le chiese si sono trasformate in cimiteri, con le bare messe in fila in attesa di essere tumulate e la situazione è la stessa nelle camere mortuarie degli ospedali. Le pagine dei necrologi si allungano, il 17 marzo sono più di dieci. Sono quelle dieci pagine de L’Eco di Bergamo che hanno fatto il giro del mondo, pubblicate su giornali come il New York Times e il Washington Post.