Il mondo intorno a noi sta cambiando, da qualche giorno a questa parte lo ha già fatto. Molte delle attività che consideravamo scontate, naturali, di fatto non lo sono più. Sono in pausa. Le lunghe cene con gli amici, i concerti, gli aperitivi. Ce ne rimangono però altre, e non meno degne. Ci sono i film, che in tempi come questi offrono oltre che sollievo, anche una possibilità di evasione. Ci si immerge, scena dopo scena, e pian piano possiamo perderci in boschi, praterie, piazze e città esotiche dove non siamo mai stati prima. Una volta ancora, in soccorso nei momenti di difficoltà viene la cultura. #pellicoledaquarantena
Febbraio 1982. Il dottor Krause è uno scienziato della Germania Est. Si guarda attorno impaurito e consegna una fiala a un gruppo di agenti americani. Dentro c’è il virus MM88, che rende letale ogni altro batterio con cui entra in contatto. Poche settimane dopo il mondo intero affronta una nuova pandemia. Si chiama «influenza italica».
Inizia così Ultimo rifugio: Antartide, film del 1980 che ci mostra un futuro post-apocalittico visto da Oriente. Tratto da un romanzo di Sakyō Komatsu, maestro della letteratura fantascientifica giapponese, la pellicola è diretta da Kinji Fukasaku, da noi conosciuto (poco) per Tora! Tora! Tora! e per il violento Battle Royale. Ma Fukasaku è nome amato da chi ne sa: un omaggio al regista giapponese compare nei titoli di coda di Kill Bill: Volume 1.
Colossal nelle ambizioni più che nel risultato, Ultimo rifugio: Antartide mostra scenari già visti. Al cinema e non solo. Il virus scatena il panico collettivo: gli ospedali sono saturi per il gran numero di pazienti e i medici, esausti, finiscono per ammalarsi. I governi di tutto il mondo cercano di limitare il contagio, la legge marziale viene imposta in molti paesi.
Sette mesi dopo lo scoppio dell’epidemia l’intera popolazione mondiale è stata annientata. Sopravvivono solo in 863, tecnici e scienziati impegnati in Antartide: a dieci gradi sotto zero il virus perde di forza. Solo loro potranno salvarsi. I superstiti si danno una nuova forma di governo e pensano a ripopolare il pianeta – ci sono otto donne tra centinaia di uomini. Si lavora a un vaccino senza crederci troppo, disperazione e speranza convivono insieme.
Cabinet Official: You mean there’s no vaccine? Then what is it we’re giving the police and fire department personnel? The essential services, the military alert crews if not a vaccine? It’s just that we don’t have enough for the general populace. Isn’t that right?
Science Official: We’ve put together a soup of every flu-related vaccine we know. It’s effect leaves something to be desired. In fact, it’s more of a placebo than anything else.
Cabinet Official: You gave me a goddamn placebo?!
Il giorno della resurrezione. Virus. Ultimo rifugio: Antartide. Quando un film ha titoli tanto diversi in paesi diversi c’è dietro qualcosa di grosso, una storia produttiva audace e complessa. Dietro all’opera di Fukasaku si cela l’ambizione di Haruki Kadokawa, proprietario del più grande impero editoriale del Sol Levante; il suo progetto di espandersi sul mercato internazionale. Kadokawa reclutò famose star di Hollywood e lanciò un’imponente campagna pubblicitaria. Ne uscì Virus – questo il titolo americano – una delle produzioni più costose nella storia del cinema giapponese.
Alla grande ambizione seguì il grande insuccesso. Girato tra Canada e Alaska, con un profluvio di location e di effetti speciali poco speciali, il film fu un clamoroso flop commerciale. Negli Stati Uniti fu distribuito solo in pochi cinema e dopo pesanti tagli venne svenduto alle tv via cavo. In Europa non andò diversamente. Tradotta in italiano con Ultimo rifugio: Antartide, la pellicola fu ridotta a un’ora e mezza e presto dimenticata.
Secondo Fantafilm «più che nella storia, la sua originalità sta nella rilettura in chiave fantascientifica del fortunato filone dei film catastrofici che in quegli anni riempivano le sale». Se per il genere e per il cast sembra di assistere a un colossal, Virus non lo è sino in fondo. Le scene di distruzione sono poche e quasi tutto è raccontato in interni. La regia è lenta e a tratti statica. In una delle prime scene si vede il panico che si diffonde a Milano, ma non è Milano ed è abitata da asiatici.
Eppure nel film aleggia un’aria malinconica ed estrema che stringe il cuore, e pian piano si riesce a entrare nel mondo dei protagonisti. Un mondo diversissimo e così simile al nostro. Basta pensare al prologo, desolante, forte, con un uomo malconcio che raggiunge a fatica una chiesa; si avvicina al crocifisso e trova scheletri tutt’intorno. E l’epilogo non è da meno. Come finisce questo disaster movie? Riusciranno i nostri eroi a battere il virus? Sperare non costa nulla ma Hollywood è molto lontana.